24 Ottobre 2025
Bin Salman e Trump, fonte: imagoeconomica
Il 18 novembre, il principe ereditario Mohammed bin Salman (MBS) varcherà di nuovo la soglia della Casa Bianca. Non si tratta di una visita di protocollo, ma di un vertice destinato a ridefinire i rapporti tra Washington e Riyadh. Sul tavolo: intelligenza artificiale, difesa, cooperazione nucleare e commercio, cioè il cuore pulsante della geopolitica del XXI secolo. Dopo anni di gelo seguito al caso Khashoggi, MBS torna negli Stati Uniti con un profilo più pragmatico e con un’agenda orientata alla trasformazione digitale. Non cerca più legittimazione politica, ma partnership industriali in grado di sostenere Vision 2030, la grande strategia di modernizzazione economica del Regno. L’obiettivo saudita è chiaro: sostituire la dipendenza dal petrolio con la leadership nel digitale e nell’energia del futuro. Per Trump, che punta a rilegittimare la propria politica estera in chiave business-first, è l’occasione perfetta per consolidare un nuovo asse economico del silicio.
Per decenni l’equazione era semplice: petrolio saudita in cambio di sicurezza americana. Oggi quella logica è superata. Con Vision 2030, Riyadh non vuole più essere un semplice cliente dell’Occidente, ma un co-produttore di tecnologia e competenze. Il Public Investment Fund (PIF), il fondo sovrano guidato da MBS, non compra più passivamente quote di multinazionali: investe come co-sviluppatore industriale. Finanzia fabbriche, centri di ricerca, piattaforme digitali e campus formativi dentro i confini sauditi. È la traduzione concreta della nuova dottrina economica: trattenere nel Paese valore, cervelli e catene di fornitura. Programmi come IKTVA (di Aramco) e la Local Content and Government Procurement Authority (LCGPA) impongono criteri stringenti: vince chi produce in Arabia Saudita, forma manodopera locale e trasferisce proprietà intellettuale. È un cambio radicale di mentalità: da “acquisto estero” a industrializzazione nazionale condivisa.
Gli Stati Uniti, consapevoli del nuovo contesto geopolitico, si muovono con realismo liberale. In un mondo frammentato, la strategia non è più “produrre ovunque”, ma costruire filiere sicure nei Paesi alleati. Riyadh è uno di questi. La cooperazione si estende ora ai semiconduttori, all’intelligenza artificiale e alla cyber-sicurezza. Washington offre tecnologia e know-how entro guardrail chiari: tutela dell’IP, uso limitato alle applicazioni civili, controllo sulla sicurezza dei dati. In cambio, ottiene un partner regionale stabile capace di contenere la penetrazione cinese e di assicurare continuità energetica. Si tratta di una nuova architettura economico-industriale. Non più contratti “chiavi in mano”, ma joint venture, data center, linee di test, piattaforme AI e poli R&D costruiti insieme. Ogni impianto diventa un “vincolo positivo” tra le due economie: più difficile da rompere di qualsiasi accordo politico.
Tra i dossier più sensibili c’è quello del nucleare civile. Riyadh vuole costruire la propria filiera energetica con tecnologia americana, ma pretende libertà operativa per sviluppare in futuro capacità autonome. Per Washington, accettare questa ambiguità significa contenere la Cina, oggi principale competitor nel settore. In gioco non c’è solo l’energia: c’è la sovranità tecnologica. L’Arabia Saudita mira a una “autonomia funzionale”, cioè la capacità di produrre, mantenere e innovare anche in scenari di crisi globale. È una scelta di resilienza industriale più che di indipendenza politica.
Il nuovo asse USA–Arabia Saudita non si regge più su forniture episodiche, ma su interdipendenze strutturali. La co-produzione crea una rete di interessi che rende costosa ogni rottura: fabbriche, infrastrutture, personale formato, standard condivisi. È una stabilità fondata sull’economia reale, non sulla diplomazia formale. Il modello è semplice ma potente: costruire insieme per durare insieme. Gli Stati Uniti esportano tecnologia e governance; l’Arabia Saudita offre capitale, energia e una posizione strategica nel cuore del Medio Oriente. Questa è la vera novità del “ritorno di MBS”: una geopolitica dell’intelligenza artificiale, dove il petrolio del futuro non è sotto la sabbia, ma nei server e nei dati. Ogni algoritmo condiviso è un mattone di potere; ogni centro R&D è un avamposto di influenza.
La visita di MBS a Washington non è un gesto simbolico: è la ratifica di una trasformazione strutturale. La diplomazia si è fusa con l’economia, e il linguaggio dei trattati con quello delle catene del valore. L’Arabia Saudita non compra più il progresso, lo costruisce. Gli Stati Uniti non esportano più solo armi o software, ma ecosistemi industriali. È la politica estera del XXI secolo: realista, interdipendente e fondata sul capitale umano. In un Medio Oriente stanco di ideologie e conflitti, il patto tra Riyadh e Washington segna un nuovo equilibrio. Non più solo petrolio e armi, ma server, competenze e visione tecnologica. È la nuova alleanza del silicio, e – per una volta – il futuro non si decide nei pozzi, ma nei laboratori.
Di Riccardo Renzi
Il Giornale d'Italia è anche su Whatsapp. Clicca qui per iscriversi al canale e rimanere sempre aggiornati.
Articoli Recenti
Testata giornalistica registrata - Direttore responsabile Luca Greco - Reg. Trib. di Milano n°40 del 14/05/2020 - © 2025 - Il Giornale d'Italia