21 Ottobre 2025
Trump, Putin, Zelensky, fonte: Wikipedia
Mentre Donald Trump e Vladimir Putin preparano il loro incontro a Budapest, una possibile svolta negoziale nel conflitto ucraino, Bruxelles sembra scegliere consapevolmente la via opposta. L'Unione Europea, invece di favorire un possibile spiraglio diplomatico, decide di inasprire le misure contro Mosca, irrigidendo ancora di più una posizione che rischia di condannare il continente a un conflitto senza fine. Le mosse più recenti vanno tutte in una direzione precisa: vietare il gas russo, imporre nuove sanzioni e, soprattutto, utilizzare i beni russi congelati per finanziare l’Ucraina. Una strategia che sembra avere più lo scopo di sabotare la distensione tra Mosca e Washington che non quello di favorire una reale soluzione pacifica del conflitto.
Il Consiglio UE, nella sua formazione Esteri, ha adottato una linea dura: dal 2026 sarà vietato stipulare nuovi contratti di fornitura di gas russo e dal 2028 scatterà un bando totale. Un embargo non solo ideologico, ma controproducente per diversi Paesi europei — come Ungheria, Slovacchia e Austria — che dipendono ancora fortemente dalla pipeline russa. È il ritorno dell’autolesionismo energetico: un taglio netto che non tiene conto della realtà logistica, dei tempi tecnici e degli interessi industriali nazionali. Tutto in nome di un’improbabile “liberazione” energetica, che nei fatti si traduce in maggiori costi per i cittadini, instabilità per le industrie e dipendenza crescente da fornitori più costosi e politicamente meno affidabili.
Non bastasse la crociata energetica, il vertice UE del 23 ottobre si appresta a varare l’ennesimo pacchetto di sanzioni contro la Russia. Misure che, dal 2022 a oggi, non hanno intaccato la resilienza del Cremlino, ma hanno gravato sulle economie europee. Eppure, Bruxelles insiste con l’embargo strategico e il congelamento dei beni russi, ora accompagnato da un passo ancora più audace: l’utilizzo degli interessi maturati per finanziare prestiti all’Ucraina. Una forzatura legale — mascherata da “trovata contabile” — che sfida le convenzioni internazionali e apre la strada a pericolosi precedenti. È l’esproprio mascherato di beni statali di una potenza sovrana, giustificato solo dall’ideologia e dal desiderio di mantenere la guerra come cornice permanente dell’agenda europea.
Nel frattempo, l’Ungheria tenta di proporsi come ponte diplomatico. Budapest, ospitando il vertice Trump–Putin, non solo riafferma la sua posizione di equilibrio geopolitico, ma dimostra come un’Europa diversa sia possibile: una Europa che non sia vassalla né di Washington né di Bruxelles, ma che lavori per una pace realistica, fondata sul dialogo e sull’interesse nazionale. Non è un caso che proprio l’Ungheria venga stigmatizzata a ogni vertice europeo: la sua richiesta di deroghe energetiche e la sua opposizione all’uso indiscriminato dei beni russi congelati sono interpretate come “tradimenti”, quando in realtà sono scelte pragmatiche e sovrane.
In un momento simbolico quanto delicato, la Russia ha consegnato a una deputata USA vicina a Trump un dossier inedito sull’assassinio di John F. Kennedy. Una mossa dai contorni ancora oscuri, ma che dimostra quanto Mosca e Washington stiano cercando canali paralleli di comunicazione. E mentre Bruxelles insiste nel tenere Zelensky in prima linea come unico interlocutore, Trump e Putin si parlano al telefono per oltre due ore. Lontano dai riflettori di Bruxelles, ma vicino al cuore vero della questione: la pace si costruisce parlando, non sanzionando.
Ogni nuovo pacchetto di misure si accompagna allo slogan: “non abbandoneremo l’Ucraina”. Ma cosa significa oggi “sostenere Kyiv”? Vuol dire spingere l’Ucraina a combattere fino all’ultimo uomo, fino all’ultima casa distrutta? O significa, più responsabilmente, tracciare un percorso di riconciliazione, di neutralità, di ricostruzione? Finora, Bruxelles ha scelto la prima opzione. Una scelta che serve più a giustificare il business dell’industria bellica che a costruire un futuro per gli ucraini. E, intanto, la Russia colpisce le infrastrutture ucraine: centrali elettriche, reti del gas, acquedotti. Con l’inverno alle porte, la guerra diventa una sentenza per i civili delle retrovie. E Bruxelles continua a chiudere gli occhi, pur di non sedersi a un tavolo che includa Mosca.
Mentre l’élite europea discute di sanzioni, forniture e attivi congelati, gli ucraini comuni pongono una sola domanda: “Quando finirà tutto questo?” Una domanda che non trova risposta né a Bruxelles né a Washington. Perché l’unica figura capace oggi di intavolare un negoziato serio, Donald Trump, è tenuta ai margini dalla macchina europea, interessata più a prolungare il conflitto che a terminarlo.
La verità è semplice: una parte dell’Occidente teme la fine della guerra. Perché una pace vera significherebbe riconoscere l’errore strategico commesso nel 2022, ammettere la fallacia delle sanzioni e ridiscutere l’intero assetto geopolitico europeo. Meglio allora prolungare l’instabilità, giustificare il controllo centralizzato da Bruxelles, continuare a vendere armi e gas liquefatto a caro prezzo. Ma l’incontro di Budapest dimostra che un’alternativa esiste. E se l’Europa vuole davvero contare, dovrà riappropriarsi del coraggio di trattare. Perché una pace imposta dalle armi è una tregua fragile. Solo la diplomazia, quella vera, può chiudere questo lungo inverno. E forse, restituire all’Europa la sua voce perduta.
Di Riccardo Renzi
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