22 Agosto 2025
“In principio era il Verbo”. Anche l’incipit del Vangelo secondo Giovanni riconosce alla parola un potere creativo assoluto. Da sempre il controllo del linguaggio è una delle forme più raffinate e pericolose del potere.
George Orwell, in “1984”, lo porta alle estreme conseguenze con l’introduzione del bipensiero, un meccanismo mentale che permette di accettare contemporaneamente due idee opposte come vere, e la neolingua, una lingua artificiale creata per limitare il pensiero e il dissenso, controllando così la realtà e il comportamento.
La neolingua del “Ministero della Verità” svuota infatti le parole di senso fino a farle significare il contrario di se stesse. “La guerra è pace. La libertà è schiavitù. L’ignoranza è forza.” Una specie di Pilates mentale per la coscienza: piegata, stirata, annodata finché non perde la sua forma e il suo significato originario.
Mark Twain, con “Il diario di Eva”, mostra la stessa dinamica ma con leggerezza e sottile ironia. Eva non si limita a nominare ciò che vede: lo battezza con affetto, lo osserva, lo descrive, lo classifica. Per lei dare un nome significa stabilire un legame. Adamo, invece, è infastidito da questa mania catalogatrice della “nuova creatura”. Scrive Twain: “Ho fatto amicizia con tutte le cose, e le ho chiamate per nome. Adamo dice che non è necessario, ma come faccio a chiamarle se non so come si chiamano?” È la differenza tra dare un senso al mondo e limitarsi ad accettarlo o a tollerarlo.
Negli ultimi cinque anni, si è assistito a una vera e propria guerra: le parole sono state usate per cambiare la percezione della realtà, pezzo dopo pezzo. Prima è stata la volta di RESILIENZA, il lasciapassare lessicale per costruire uno stato di emergenza permanente: dal Covid, al cambiamento climatico, fino alla guerra. Una parola che ha silenziosamente sfrattato dal lessico comune un’altra ben più nobile e profonda: RESISTENZA. Essere resistenti significa opporsi, come un corpo solido. Essere resilienti significa adattarsi, perfino piegarsi, come un giunco. E per chi vuole rimodellare la società a colpi di shock e di emergenze permanenti, per chi ha progettato un Grande Reset, la resilienza è molto più funzionale. La resistenza salva la dignità e l’umanità, la resilienza salva il sistema.
Poi è stato il turno di VACCINO. È stata modificata la definizione perfino sui dizionari per poter includere farmaci che non immunizzavano né sterilizzavano. Chi osava dubitare della narrazione “scientifica” imposta a reti e media unificati veniva considerato un untore, un irresponsabile egoista nemico della salute pubblica ma soprattutto veniva bollato come COMPLOTTISTA. Il termine fu costruito dalla CIA e dall’FBI per designare in modo denigratorio chi non accettava le conclusioni della Commissione Warren sull’assassinio del presidente USA John Fitzgerald Kennedy. Dopo quasi quarant’anni fu poi ripescato dai servizi segreti e dai media USA per screditare chiunque osasse opporsi alla verità imposta a proposito degli attentati dell’11 settembre 2001. Un complottista non merita rispetto né attenzione. Game over. E se proprio insiste, c’è sempre il ban, la cancellazione e il pubblico ludibrio digitale.
Negli ultimi 22 mesi, la battaglia si è spostata su una parola pesantissima: GENOCIDIO. Chi la usa per definire i crimini commessi da Israele a Gaza viene subito messo nel mirino: antisemita, filo-terrorista, simpatizzante di Hamas. Et voilà, ogni discussione è chiusa. Questo approccio è centrale perché stabilisce che solo gli ebrei hanno subito un genocidio. E, in nome di quello che hanno subito, possono permettersi tutto, come sosteneva Ariel Sharon: “nessuno ha il diritto di mettere sotto processo il popolo ebraico e lo Stato d’Israele”.
L’unico vero genocidio lo ha subito il “popolo ebraico”, non esiste altro genocidio al di fuori di quello commesso dai nazisti del Terzo Reich. Il monopolio sul genocidio è il vero scudo atomico d’Israele.
Tra i custodi e le vestali dell’ortodossia linguistica spicca Liliana Segre.
Già durante la stagione del “siero magico” (Pfizer, Moderna o AstraZeneca che fosse), ha messo in campo tutta la propria autorevolezza di sopravvissuta alla Shoah e di senatrice a vita per zittire ogni voce dissidente.
Dall’altra parte, un’altra sopravvissuta, Vera Sharav, ha ricordato al mondo il valore della parola LIBERTÀ: “Da bambina sono sopravvissuta al terrore nazista… Conosco le conseguenze dell’essere stigmatizzati come portatori di malattie… La Shoah è stata messa in moto quando la libertà personale, i diritti legali e i diritti civili sono stati spazzati via.” Vera Sharav ha visto nel Green Pass lo strumento per costruire un apartheid di nuova generazione: una classe privilegiata e una discriminata. La domanda retorica che ha lasciato sospesa era: vi suona familiare?
Due sopravvissute, due parole chiave. Segre: obbedienza. Sharav: libertà.
Sull’uso della parola genocidio, la limpidezza e l’onestà intellettuale di un altro sopravvissuto, Stephen Kapos, vale senza dubbio molto di più delle acrobazie verbali e dei trucchi da illusionista semantico della signora Segre: “Il genocidio di Gaza non sta avvenendo nel mio nome… Quando ho visto l’ambasciatore di Israele all’ONU indossare la stella gialla, mi si è rivoltato lo stomaco. Per chi, come me, ha dovuto davvero portare quella stella, questo è un insulto.”
Forse aveva ragione Eva: dare un nome alle cose è un atto d’amore e di verità. Il problema è che oggi non è più possibile nominare nulla senza la supervisione di un Ministero, di una Commissione o di un algoritmo. E così si è costretti a vivere in un mondo dove non è importante cosa accade, ma solo come viene chiamato e raccontato.
È il trionfo della neolingua: uno spazio apparentemente libero dove le guerre sono missioni di pace, la censura è protezione, la sorveglianza è libertà. E il genocidio? Solo un’opinione da moderare. Benvenuti nel regno del Ministero della Verità.
Di Marco Pozzi
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