16 Luglio 2025
Ursula von der Leyen, fonte: imagoeconomica
Rearm Europe, poi ribattezzato con un spruzzata di marketing “Readiness 2030”, è il nuovo numero di prestigio degli illusionisti di Bruxelles. Un trucco da palcoscenico che non ha nulla da invidiare agli spettacoli più mirabolanti di Las Vegas. Dietro il fumo e gli specchi, la realtà è fin troppo nitida: si tratta di drenare denaro pubblico da sanità, istruzione e welfare per alimentare la macchina famelica del complesso militare-industriale.
La cifra messa sul tavolo è di quelle da capogiro: 800 miliardi di euro. Una somma enorme, stabilita senza dibattito né fondamento tecnico, come un dogma religioso. Nessuno ha spiegato come si sia giunti a quel numero, né quale sia la logica operativa alla base. Ma l’Unione Europea non è mai stata una casa della logica: è, piuttosto, una chiesa laica che impone la sua fede con la rigidità dei dogmi, come il famigerato vincolo del 3% tra deficit e PIL inserito nel Trattato di Maastricht.
Come ogni religione che si rispetti, anche l’eurocrazia ha il suo Moloch: un’entità astratta, insaziabile, che si nutre di sacrifici umani. È in nome di questo Moloch che sono stati spazzati via i diritti fondamentali, sospese le garanzie costituzionali, smantellati pezzo dopo pezzo i presìdi dello Stato sociale. Esattamente dieci anni fa, nel luglio del 2015, fu la volta della Grecia: una nazione intera immolata sull’altare della stabilità finanziaria. “Ce lo chiede l’Europa” è diventato il mantra con cui si giustifica ogni taglio, ogni svendita, ogni brutalità sociale.
La stessa logica si ripete oggi con l’industria delle armi. Gli 800 miliardi non nascono da un’analisi militare, né da una pianificazione strategica. Non si è consultato un solo generale, non si è elaborato alcun piano operativo: la cifra è frutto delle analisi di Mario Draghi e dei suoi colleghi dell’alta finanza. “L’Europa deve armarsi” – ci viene detto – come fosse un imperativo categorico. Ma non è chiaro né contro chi, né come, né con quale obiettivo. Solo una cosa è certa: bisogna spendere. Subito. Molto. Moltissimo. A prescindere dalla disponibilità finanziaria e da qualsiasi vincolo di bilancio. È la nuova emergenza: dopo il Covid e l’apocalisse climatica, il pericolo viene dalla minaccia russa e cinese.
Eppure, i dati mostrano l’assurdità dell’allarme. L’Unione Europea spende già oggi in ambito militare circa quattro volte il budget annuale della Federazione Russa. Il problema, semmai, è la qualità della spesa: un carro armato tedesco può arrivare a 20 milioni di euro mentre uno russo ne costa 4 e uno cinese 2, a parità di prestazioni. Il costo non determina la potenza, tanto meno la deterrenza. Conta la visione strategica, l’efficienza produttiva, la capacità tecnologica e, soprattutto, la pianificazione e la programmazione. E qui l’Occidente mostra tutti i suoi limiti.
Le recenti guerre – da quella russo-ucraina allo scontro-lampo, la “guerra dei 12 giorni”, tra Iran, Israele e USA – hanno evidenziato come i conflitti moderni si giochino soprattutto attraverso l’impiego di droni, missili e difese aeree. In questi settori l’Occidente accusa un ritardo tecnologico evidente. I missili ipersonici, oggi considerati la nuova frontiera della supremazia bellica, sono sviluppati e impiegati esclusivamente da Russia, Cina e Iran. Gli Stati Uniti e i loro alleati ne sono totalmente privi.
Ma ciò che più dovrebbe far riflettere è la sproporzione nella capacità produttiva. Lo stesso Mark Rutte, nuovo segretario generale della NATO, ha ammesso con preoccupazione che “la Russia produce più munizioni in tre mesi di quanto l’intera NATO riesca a produrne in un anno”. Una dichiarazione che andrebbe scolpita sulla soglia di ogni ministero della difesa europeo prima di ogni spesa incontrollata.
E allora, cosa resta di Readiness 2030, se non un piano fittizio, un castello di carte costruito per alimentare nuove emergenze e rinnovate paure? La guerra permanente come cornice ideale per l’indebitamento infinito, l’austerità militarizzata, la società del controllo. Un modello già visto: l’austerity che ha raso al suolo la Grecia, la pandemia usata per legittimare lo stato d’eccezione prescindendo da qualsiasi principio di diritto, la crisi climatica trasformata in leva per nuovi vincoli e nuove tasse.
Questa volta il nemico è esterno – Putin, Xi Jinping – ma il meccanismo è identico. Una minaccia fittizia, una risposta sproporzionata, un popolo a cui viene chiesto di sacrificarsi “per la sicurezza”, come ieri per “la salute” e l’altro ieri per “la stabilità finanziaria”. È sempre la stessa liturgia. Cambiano i pretesti, non cambia il fine.
Come scriveva Simone Weil, “i popoli non credono mai di andare alla guerra per difendere i propri interessi; credono sempre di andarci per difendere dei valori”. Ecco il punto: Readiness 2030 non è un piano per difendere l’Europa, ma per convincere gli europei a non vedere più nulla oltre lo specchio del Moloch.
Di Marco Pozzi
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