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Strocchi (Electa Ventures e IPO club): "Le piccole e medie imprese italiane occupano il 70% dei cittadini, ma capitali e imprese dialogano poco"

Il Presidente di Electa Ventures e Founder di IPO club è stato intervistato da Il Giornale d'Italia in occasione del 7° Retail & Finanza l’appuntamento di Confimprese per favorire un confronto tra imprenditori

21 Novembre 2025

Simone Strocchi, Presidente di Electa Ventures e Founder di IPO club è stato intervistato da Il Giornale d'Italia in occasione del 7° Retail & Finanza l’appuntamento di Confimprese per favorire un confronto ai massimi livelli tra imprenditori, investitori e operatori finanziari su come i sistemi tradizionali e innovativi possano creare valore concreto per le aziende del settore.

Potrebbe fare un breve riassunto di quello che è stato il suo intervento oggi?

L’intervento conclusivo, cioè quello che riassume il tema centrale della giornata di oggi, dedicata a Finanza e Retail e al modo in cui i capitali possono sostenere lo sviluppo delle imprese retail, quindi delle realtà che ogni giorno ci vendono prodotti e servizi soddisfacendo le necessità e i desideri della popolazione, ha mostrato come oggi vi sia molta attenzione, e un’ampia proposta finanziaria, per aiutare il consumatore a comperare il prodotto venduto dall’impresa retail.

Abbiamo visto che è presente molta attenzione, così come un’ampia proposta finanziaria, per aiutare il consumatore a comperare il prodotto venduto dall’impresa retail. Esiste inoltre una buona finanza dedicata a gestire la catena di circolante, cioè la filiera che in ultima istanza provvigiona i negozi affinché possano trovarsi nelle condizioni di vendere il prodotto al consumatore finale. In Italia, invece, risulta particolarmente rarefatta la finanza paziente e abilitante, ovvero quella che dovrebbe investire in azioni per far crescere le nostre imprese, comprese quelle del retail, e consentire loro, quando hanno successo, di non diventare preda di compratori stranieri ma, al contrario, di poter diventare predatrici, capaci di espandersi all’estero anche attraverso l’acquisizione di imprese straniere.

 

Quanto collaborano, secondo lei, capitali e imprese italiane?

Appunto, poco. Ci sono alcuni temi che devono essere superati: l’Italia, lo vediamo, è un Paese caratterizzato da un grandissimo risparmio nazionale; tuttavia, quando questo risparmio deve incontrare l’impresa nazionale, cioè quella che dà lavoro agli italiani, la combinazione non riesce. Basti pensare che le piccole e medie imprese italiane occupano il 70% dei cittadini e delle cittadine italiane. Eppure, quando questi due mondi, il nostro risparmio e le imprese in cui lavoriamo, devono unirsi per diventare più forti, ciò non accade.

Perché non accade? Perché quando affidiamo a un gestore il mandato di investire i nostri risparmi in equity, quel gestore opera necessariamente attraverso un fondo aperto e deve rispettare requisiti e delle obbligazioni di compliance, quindi regolamentari, che lo portano a privilegiare investimenti estremamente liquidi. Questi investimenti sono spesso identificati nelle large cap, cioè quelle grandissime società con capitali di decine di miliardi di euro, che quasi mai sono imprese nazionali. Ne deriva che assistiamo a un dirottamento costante dei risparmi degli italiani, ossia risparmi che le PMI hanno permesso di accumulare, verso il sostegno, a prescindere dal loro valore, di grandi imprese non italiane.

Il risultato è che le imprese italiane quotate sui listini borsistici sono di fatto abbandonate a sé stesse e diventano facile preda di tech over. È sufficiente oggi leggere i giornali per vedere come si susseguano i delisting di società presenti sul mercato che vengono acquistate da soggetti terzi.

In Italia esiste un’industria del private equity ben sviluppata, che gestisce decine di miliardi di euro, ma si tratta comunque di un’industria di piccola dimensione. Di conseguenza, il private equity nazionale struttura operazioni che, al momento dell’exit, cioè della liquidazione dei propri investimenti, spesso sfociano nella vendita dell’intero capitale della società in cui ha investito. Ciò avviene attraverso l’attivazione di pattuizioni parasociali che gli consentono di trascinare alla vendita l’intero capitale sociale, con il risultato che la proprietà passa nuovamente a investitori non nazionali.

Le grandi holding di famiglia dispongono di circa 300 miliardi di euro, ma difficilmente si connettono con investimenti non proprietari, cioè non nelle loro società ma in imprese di terzi, che potrebbero essere sostenute nello sviluppo e nella crescita. Ho concluso il mio intervento osservando che, nonostante la politica, e in particolare l’attuale esecutivo, abbia sostenuto con decisione, anche grazie al dialogo con noi operatori e imprenditori finanziari, la necessità di raccordare risparmio e impresa e di sviluppare i mercati borsistici, questa linea di azione è poi scivolata nell’ultima finanziaria, oggi chiamata legge di bilancio. In essa è stato inserito un provvedimento che inasprirebbe la tassazione dei proventi da partecipazioni inferiori al 10%, una scelta paradossale, perché sono proprio quelle combinazioni di capitale e partecipazioni in aziende non proprietarie a dover creare l’hummus, ossia il terreno fertile per la crescita delle imprese italiane, comprese quelle del retail.

Peraltro, il retail, che vende prodotti direttamente ai cittadini, è molto simile a ciò che dovrebbe fare la Borsa, rendendo accessibili delle azioni, anche una sola, ai risparmiatori italiani.

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