12 Ottobre 2025
Chemin Perez - ph GdI
Il Giornale d'Italia è stato a cena a Tel Aviv con Chemi Peres, figlio del premio Nobel Shimon, chairman del Perez Center for peace and Innovation e primo imprenditore israeliano dell'hi-tech, il 9 ottobre 2025, il giorno dell'annuncio di Trump sull' "accordo di pace", che prevede il cessate il fuoco a Gaza e la liberazione degli ostaggi detenuti da Hamas e da Israele, 2 giorni dopo l'anniversario dei 2 anni dall’"operazione Diluvio di Al-Aqsa" e l'attacco di Hamas. L’8 ottobre del 2023 la dichiarazione dello stato di guerra da parte di Benjamin Netanyahu con il via all’"operazione Spade di ferro" costata la vita ad oltre 70mila palestinesi. Di questi, oltre 25mila sono bambini. In totale, secondo i sati Unicef, sarebbero oltre 64mila i bambini vittime di questa guerra, tra morti e mutilati.
Chemi Peres dà appuntamento al GdI al Turkiz Restaurant, in una delle più eleganti zone residenziali sul mare a nord di Tel Aviv, nei pressi dell’esclusivo country club locale. Ci accoglie con un sorriso e subito afferma: “Felice di vedervi, abbiamo dimostrato che Israele ha vinto, ma finché non ci sarà la pace non c'è vittoria. L'unica vittoria è la pace”.
Le finestre del Restaurant si aprono su un panorama meraviglioso di mare e luci che l’imbrunire inizia ad esaltare. Ma Chemi Peres guarda ben oltre quel panorama, e ha già chiaro in mente il futuro di Israele e della Striscia.
Ordiniamo un'insalata da dividere e 2 filetti di branzino con verdura, senza pomodoro, e salse a parte. Pane tostato, un bicchiere di vino rosso per lui, una birra per noi.
Siamo di ritorno da Sderot, al confine nord est di Gaza, e abbiamo percorso tutta la Striscia fino al confine con l'Egitto, dove si trova l'accesso di Kerem Shalom per i camion che portano gli aiuti umanitari, riso, farina, tonno, zucchero e altri generi alimentari di prima necessità. I mezzi sono fermi nel piazzale, gli orari di accesso sono ben definiti: dalla domenica al giovedì (venerdì e sabato nessun accesso), la mattina 1 ora e mezza, dalle 7,30 alle 9, e il pomeriggio 1 ora, dalle 15.30 alle 16.30.
A Sderot si sentono ancora bombardamenti e raffiche di mitragliatrici pesanti, probabilmente Browning calibro 12,7. La linea di qualche km visibile da Israele appare una landa desolata coperta di soli ruderi di case e palazzi bombardati dall'Idf in modo scientifico, meticoloso, senza una sola struttura ancora sana.
"Il massacro di Hamas è stato terribile, siamo stati nei Kibbutz a fine ottobre 2023, ma la reazione di Israele non è stata eccessiva, con oltre 70mila palestinesi morti e 64mila bambini (dati Unicef) colpiti tra morti e mutilati?", gli chiediamo.
“Mah, se fosse successo a voi cosa avreste fatto? - risponde Chemi Peres -. Sono dei terroristi, hanno ucciso degli innocenti in casa, famiglie. Anche l’Unicef è legata ad Hamas, e non credo al numero dei morti, potrebbero essere circa 20mila”.
"Ma anche 20mila non sono comunque troppi? Civili e bambini? Non si tratta di un danno collaterale", replichiamo.
“Noi abbiamo il diritto di esistere, siamo circondati da Stati nemici, e dobbiamo dimostrare che siamo in grado di combattere e difenderci”, risponde Peres.
“E’ la terza volta che ci facciamo trovare impreparati – afferma Peres in modo netto - la prima è stata durante la seconda guerra mondiale, e ci è costata l’olocausto. La seconda nel 1973, quando siamo stati colti alla sprovvista e ci siamo ritrovati nella guerra dello Yong Kippur. Poi c’è stato il 7 ottobre due anni fa che ci ha costretto a contare 1.200 morti e 451 rapiti. Il concetto di deterrenza è fallito”.
Chemi mostra una leggera contrazione del volto quando pronuncia le parole “deterrenza” e “impreparati”, appare rammaricato. “Come Stato abbiamo sempre lavorato sulla deterrenza – ripete - ma ciò che è accaduto è la dimostrazione che la deterrenza ha fallito e non può ripetersi. Dobbiamo essere pronti ad affrontare il nuovo corso”.
Tre le linee d’azione imprescindibili per Chemi Peres.
La prima: “Combattere attivamente qualunque organizzazione horror/terror - che potremmo tradurre di orrore terroristico - da chiunque sia costituita e ovunque si trovi, immediatamente, senza attendere”. Il pensiero corre da Hamas a Hezbollah e Iran.
La seconda: “Vanno attaccati in via preventiva gli Stati che hanno forza e che con i loro modi di fare si mostrano contrari ad Israele o sono storicamente ostili ad Israele”. Il pensiero stavolta corre verso Libano, Siria, Qatar e ancora l'Iran.
La terza linea d’azione per il figlio del premio Nobel per la pace del 1994 e storico presidente di Israele è “porre attenzione a chiunque abbia la capacità tecnologica e una forza militare in crescita magari senza reale motivo che possa potenzialmente diventare un nemico di Israele, non adesso ma in futuro, quindi degli 'osservati speciali' ". Sulla parola “potenzialmente” Chemi Peres di sofferma per un istante. Sembrerebbe riferirsi all'Egitto, che sta crescendo in termini di forza, ma non lo conferma.
“Va considerato che magari con alcuni Stati c’è amicizia e sintonia, ma magari potremmo trovarci all’improvviso nella situazione di un cambio di premier con qualcuno ostile ad Israele e ci troveremmo quindi contro uno stato divenuto nel frattempo ‘potente’ ma da noi sottovalutato; il rischio esiste”.
"Ma con questo discorso, ad esempio, anche la Francia o un altro stato qualunque europeo potrebbe rappresentare un rischio?", gli chiediamo.
“La Francia non ha motivi di essere contro di noi, e geograficamente non è vicina a Israele”, risponde.
Per Peres il “lavoro” a Gaza non è finito: “Dobbiamo eradicare Hamas, poi si potrà lavorare alla ricostruzione assieme, israeliani e americani, arabi e qatarini, e anche palestinesi. Sarà un business miliardario nel real estate, l’Arabia investirà tantissimo, compreranno terreni”.
"Ma da chi saranno acquistati i terreni e come sarà possibile individuare le proprietà immobiliari tra le macerie che gli attacchi dell’IdF hanno lasciato a Gaza?", chiediamo.
“Ci sarà una modalità per capire – risponde tranquillo - e Gaza diventerà una zona di coabitazione di più forze, in modo che Hamas non torni più”.
Lo scenario risulta dunque quello di un presidio militarizzato, sul modello di Gerusalemme: “Sì – afferma Peres - ma con più Paesi, quelli che non vogliono restare indietro ed entreranno negli accordi di Abramo”.
Gli Accordi di Abramo sono le intese varate nel 2020 sotto l’amministrazione Trump che hanno portato a legami formali tra Israele e alcuni Paesi arabi e a maggioranza musulmana, a partire dagli Emirati Arabi Uniti e dal Bahrein. Firmati a Washington il 15 settembre 2020, successivamente hanno avuto l’adesione anche di Sudan e Marocco. Si è trattato dei primi accordi di questo tipo tra Israele e le nazioni arabe dai trattati di pace con l’Egitto nel 1979 e con la Giordania nel 1994.
Il nome “Accordi di Abramo” è stato scelto per riflettere l’eredità comune di due delle tre religioni abramitiche: l’Ebraismo e l’Islam. Ad interromperne l’espansione era stato proprio l’attacco di Hamas del 7 ottobre.
Già prima che si delineasse il nuovo scenario di pace disegnato da Trump, si erano registrati diversi segnali di una ripresa delle relazioni con Israele, come ad esempio la scelta di Al Jazeera in Qatar di mandare via i caporedattori troppo pro Hamas, un modo per apparire come Paese più moderato e riavvicinarsi ad Israele per poter rientrare negli accordi commerciali per la ricostruzione di Gaza.
“La ricostruzione – dice il figlio del premio Nobel per la pace 1994 guardando lontano - trainerà gli accordi di Israele, farà da volano per la sua crescita e ci sarà business per tutti”.
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