A Gaza si prepara una nuova fase, formalmente di pace, ma nei fatti forse il preludio a una lunga amministrazione straniera. La cosiddetta International Stabilization Force (Isf), ideata nell’ambito del “Trump-Netanyahu Gaza Plan”, dovrebbe costituire il pilastro della seconda fase del cessate il fuoco: una forza multinazionale incaricata di mantenere l’ordine, garantire la sicurezza dei confini e supervisionare il disarmo dei gruppi armati palestinesi.
Secondo fonti di Israel Hayom, la missione dovrebbe contare “decine di migliaia di soldati”, con Azerbaijan e Indonesia come principali contributori. Si tratta di due paesi a maggioranza musulmana ma con relazioni molto diverse con Israele: l’Azerbaijan è da anni un partner strategico di Tel Aviv in campo energetico e militare, mentre l’Indonesia — che non riconosce Israele — ha posto condizioni rigide, chiedendo un chiaro mandato del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite prima di partecipare.
Le discussioni, che coinvolgono il vicepresidente statunitense J.D. Vance e il premier israeliano Benjamin Netanyahu, mirano a definire una forza “di sicurezza temporanea”. Tuttavia, nessun calendario preciso di ritiro è stato delineato. Israele avrebbe già ottenuto garanzie chiave: la presenza dell’Isf non dovrà limitare la libertà d’azione dell’esercito israeliano, che potrà continuare a colpire obiettivi considerati “minacce terroristiche”.
In pratica, si profila una missione che più che stabilizzare potrebbe cristallizzare lo status quo, trasformando Gaza in una sorta di protettorato internazionale militarizzato. Israele manterrebbe un controllo militare diretto e indiretto — via droni, sorvoli e accessi limitati, ma anche basi Idf — mentre le forze straniere agirebbero da amministratori di sicurezza, contenendo la popolazione palestinese in un’area ridotta e monitorata.
Diverse potenze regionali si sono già sfilate: Turchia esclusa dal veto israeliano, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti che hanno rifiutato di partecipare, e Stati Uniti che hanno chiarito che nessun soldato americano metterà piede nella Striscia (anche se hanno costruito una base in Israele, al confine con Gaza).
La Francia, intanto, spinge per far applicare la risoluzione Onu che autorizzerebbe la missione al riconoscimento formale di uno Stato palestinese. Netanyahu si oppone con forza, ritenendo questa condizione “inaccettabile”. Ma senza un mandato chiaro, l’Isf rischia di essere vista come una forza d’occupazione travestita da peacekeeping — un progetto che congela la questione palestinese invece di risolverla.
Se l’obiettivo dichiarato è la sicurezza, quello implicito sembra la gestione controllata di un territorio devastato, in cui la sovranità palestinese resta un miraggio e la “pace” si traduce in una stabilità imposta dall’esterno.












