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Shutdown negli Usa: il blocco del governo americano diventa arma politica in uno scontro che congela la prima economia mondiale

Gli Stati Uniti hanno ufficialmente avviato un nuovo government shutdown, paralizzando tutte le attività federali non essenziali a causa del mancato accordo sul bilancio

06 Ottobre 2025

Usa, Congresso approva piano per evitare shutdown del governo federale, Trump esulta:  "Legge approvata all'insegna dell'America First"

Fonte: Wikimedia

Gli Stati Uniti hanno ufficialmente avviato un nuovo government shutdown, paralizzando tutte le attività federali non essenziali a causa del mancato accordo sul bilancio. Non è la prima volta che accade: dal 1975 si contano 20 shutdown, ma il contesto attuale lo rende più di un semplice incidente amministrativo. È uno strumento strategico. Un’arma politica. Uno spettacolo che mette in scena la debolezza procedurale della prima economia del mondo, offrendo all’opinione pubblica e agli attori globali un’immagine ambigua: potente ma instabile. Il 1° ottobre, data di inizio dell’anno fiscale statunitense, è il termine ultimo entro cui il Congresso USA (Camera dei Rappresentanti e Senato) deve approvare le dodici leggi di spesa – le famose appropriations – che tengono in funzione la macchina federale. In mancanza di questo, scatterebbe una soluzione tampone: il Continuing Resolution (CR), una proroga tecnica per garantire la continuità dei fondi. Ma anche questo "cerotto" legislativo è saltato. E così, lo shutdown è scattato.

Cosa succede quando il governo si spegne

Il meccanismo è chiaro: senza stanziamenti approvati, il governo non può spendere, secondo quanto prevede l’Antideficiency Act. L’Office of Management and Budget (OMB), il regista tecnico della burocrazia federale, attiva allora i piani di orderly shutdown, distinguendo fra attività “essenziali” e “eccedenti”.Proseguono i servizi legati alla sicurezza nazionale, alla difesa, al controllo del traffico aereo, e ai pagamenti obbligatori (come Social Security e Medicare). Ma tutto il resto rallenta, si interrompe o entra in modalità minima: chiudono i parchi nazionali, si fermano i permessi ambientali, si posticipano i processi civili, e 750.000 lavoratori si ritrovano senza stipendio o in congedo non retribuito.

In pratica, lo Stato rallenta, non si spegne. Ma ogni giorno di shutdown accumula ritardi, inefficienze, e perdita di capitale umano. Un danno silenzioso, ma sistemico.

Ostaggio del Congresso: dove nasce lo stallo

Dietro lo shutdown non c'è un errore, ma una scelta politica. I Repubblicani (oggi al governo) vogliono ridurre la spesa pubblica e tagliare i fondi per l’assistenza sanitaria; i Democratici (maggioritari al Senato) si oppongono. Il risultato è un braccio di ferro ideologico, aggravato dal fatto che servono 60 voti al Senato per superare l’ostruzionismo parlamentare. Nessuno dei due schieramenti è disposto a cedere. Il Continuing Resolution, che avrebbe dovuto essere un passaggio tecnico, si è trasformato in un campo di battaglia simbolico: ogni comma è una concessione, ogni rinvio è una sconfitta narrativa. In questo quadro, lo shutdown diventa un’arma negoziale, non un’anomalia.

Perché lo shutdown è una strategia e non un incidente

L’amministrazione federale, nel sistema americano, è parte del gioco politico, non solo il suo strumento. Rallentare i servizi, mettere i lavoratori pubblici in stand-by, chiudere le agenzie e ritardare i processi serve a forzare l’avversario al tavolo. È la logica del danno controllato: accettare il disagio amministrativo per ottenere un guadagno politico. Chi punta a uno Stato più snello può tollerare la paralisi più a lungo. Chi difende un’idea di pubblico efficiente e sociale subisce maggior pressione a riaprire. Il tempo diventa la vera valuta di scambio. Ogni giorno di shutdown serve a testare la tenuta della controparte.

Gli effetti: interni, finanziari, internazionali

Sul piano economico, gli effetti immediati non sono catastrofici, ma cumulativi. I mercati restano in attesa, ma i ritardi nei permessi, nei contratti pubblici e nelle statistiche ufficiali minano la fiducia. Gli economisti temono un impatto negativo sui tassi di interesse dei Treasury bond e un irrigidimento del credito. Sul piano interno, la narrazione diventa essenziale. Entrambe le parti cercano di scaricare la colpa sull’avversario, trasformando ogni comunicato in una arma di framing. Lo shutdown, quindi, non è solo blocco operativo, ma comunicazione strategica: una messinscena in cui chi “regge la torcia” vuole sembrare il salvatore, non il piromane. All’estero, alleati e rivali osservano. La forza militare americana resta intatta, ma la credibilità amministrativa ne esce logorata. Ogni nuova paralisi alimenta la narrativa di un’America potente ma caotica, ostaggio delle proprie procedure. Un messaggio ambiguo che indebolisce, nel tempo, la leadership globale.

Uno schema che si ripete

Dal 1975 a oggi, gli shutdown sono aumentati. Da Reagan a Clinton, da Obama a Trump, ogni Presidente ha affrontato almeno una crisi di bilancio. L’ultimo – nel 2019 – durò 34 giorni, il più lungo della storia, causato dal muro al confine con il Messico. Oggi, la posta in gioco è diversa ma la dinamica è identica: strumentalizzare la paralisi per spostare il dibattito pubblico e ridefinire i rapporti di forza nel Congresso.

Il futuro: quando finirà lo stallo?

Nessuno può prevedere con certezza quando lo shutdown finirà. Molto dipenderà dalla capacità dei Repubblicani di reggere la pressione interna, e dalla disponibilità dei Democratici a negoziare micro-concessioni. Ma una cosa è certa: ogni giorno che passa senza un accordo aumenta i costi per l’amministrazione e per il Paese.

Lo shutdown, in fondo, è un termometro politico. Indica quanto la politica americana sia diventata polarizzata, quanto il compromesso sia percepito come debolezza, e quanto la governabilità sia diventata una scommessa quotidiana.

In conclusione, lo shutdown non è un’anomalia: è parte integrante del sistema statunitense. Ma la sua trasformazione in tecnica di potere, più che in errore procedurale, solleva domande serie sulla resilienza democratica americana. In un mondo sempre più interconnesso, bloccare lo Stato per vincere una battaglia narrativa rischia di compromettere l'intera architettura della fiducia pubblica. E la fiducia, si sa, è l’unica cosa che un grande impero non può permettersi di perdere.

Di Riccardo Renzi

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