01 Giugno 2025
Per decenni abbiamo celebrato la democrazia come la forma di governo più giusta, più equa, più vicina ai bisogni dei cittadini. Ma oggi, in un’Europa spaccata tra astensionismo record, populismi senza progetto e istituzioni bloccate, la domanda che un tempo sarebbe sembrata eretica diventa legittima: è finita l’era della democrazia?
Il sistema democratico, così come lo conosciamo, sembra aver raggiunto il suo punto di rottura. La promessa che “il popolo può rappresentare sé stesso attraverso il voto” si è infranta contro la realtà della partitocrazia: una macchina autoreferenziale, incapace di autoriformarsi, spesso preda di interessi privati e logiche di breve termine.
Negli ultimi trent’anni, l’astensione è diventata il primo partito in molte democrazie occidentali. In Italia, alle elezioni politiche del 2022, oltre il 36% degli aventi diritto ha scelto di non votare. Non per disinteresse, ma per sfiducia. Non esistono più programmi politici riconoscibili: esistono slogan, campagne social, candidature costruite più dal marketing che da una visione strategica.
Il cittadino vota, ma non comanda. Anzi, vota, e viene sistematicamente tradito da alleanze post-elettorali, da compromessi di palazzo, i da governi tecnici che non ha scelto. I partiti non rappresentano più interessi reali, ma si sono trasformati in comitati elettorali permanenti. La logica della competizione elettorale perenne ha ucciso ogni possibilità di riforma strutturale.
Di fronte alla paralisi democratica, alcuni osservatori cominciano a guardare altrove. Alle oligarchie di Stato, come quelle cinesi o di alcune monarchie del Golfo, dove il potere è concentrato in poche mani ma dove le decisioni – nel bene o nel male – vengono prese e attuate con efficienza.
L’idea dell’“uomo forte” al comando non è nuova. Ma oggi si carica di un significato diverso: non più il dittatore novecentesco, ma un leader dotato di visione, indipendente dai partiti, scelto non per acclamazione, ma per competenza. Un’autorità riconosciuta, più che imposta. Una guida in grado di pensare in termini di decenni, non di cicli elettorali. Chi ha detto Putin?
Un altro fallimento sistemico della democrazia contemporanea è l’assoggettamento alla grande finanza. I Governi eletti dai cittadini spesso risultano impotenti davanti a decisioni prese nei board delle banche centrali, delle agenzie di rating, dei fondi di investimento.
Nel nuovo modello proposto che io vedo per il nostro futuro – una forma di oligarchia meritocratica guidata da una leadership forte – lo Stato non deve essere comandato dalla finanza, ma deve esercitare su di essa un controllo sovrano. È tempo che siano le banche centrali a rendere conto agli Stati, non il contrario. Che i fondi speculativi non possano dettare l’agenda politica di un Paese attraverso lo spread o la fuga di capitali. È arrivato il momento di mettere al primo posto i cittadini, non l'economia, o per meglio dire è arrivato il momento di ribaltare l'equazione: non più il popolo a servizio dei soldi, ma i soldi a servizio del popolo.
Ovviamente, ogni concentrazione di potere comporta dei rischi. Ma l’attuale frammentazione democratica ne comporta di ancora più grandi: instabilità cronica, crescita della disuguaglianza, perdita di fiducia nelle istituzioni, crescita dell’influenza estera (basti vedere quanto incidano potenze come la Russia o la Cina nei vuoti lasciati dalla debolezza occidentale).
Non si tratta di proporre una dittatura. Si tratta di ripensare radicalmente il concetto di rappresentanza. Forse il popolo non può rappresentare sé stesso, ma può esigere che chi lo governa sia scelto per merito, non per appartenenza. E può pretendere che chi comanda abbia gli strumenti reali per decidere, senza il ricatto delle coalizioni, delle correnti, delle lobbies.
La democrazia ha dato molto. Ma oggi, svuotata e delegittimata, non basta più. È tempo di iniziare un dibattito serio su modelli alternativi. Non per nostalgia del passato, ma per realismo verso il presente. Le sfide globali – dalla crisi climatica all’intelligenza artificiale, dalla guerra al debito – non possono più attendere i tempi lunghi dei compromessi democratici.
Un partito, un leader, una responsabilità, un programma, un'idea: prima l'Italia.
Di Aldo Luigi Mancusi
Il Giornale d'Italia è anche su Whatsapp. Clicca qui per iscriversi al canale e rimanere sempre aggiornati.
Articoli Recenti
Testata giornalistica registrata - Direttore responsabile Luca Greco - Reg. Trib. di Milano n°40 del 14/05/2020 - © 2025 - Il Giornale d'Italia