16 Maggio 2025
fonte: pixabay
Se questo tempo ci impone una riflessione urgente, è perché la posta in gioco non è solo politica, morale o sociale, ma profondamente umana. Siamo giunti a un punto in cui ciò che chiamiamo “normalità” si fonda sempre più su dispositivi di esclusione, sopraffazione e controllo, che non si riconoscono come tali. E proprio per questo sono pericolosi.
Il moralismo istituzionalizzato e il perbenismo sociale non sono fenomeni superficiali: sono sintomi di una cultura della colpa e del dominio, travestita da civiltà. Sono il frutto di una società che ha smarrito la capacità di ascoltare l’altro nella sua singolarità, e che preferisce classificare, punire o salvare, piuttosto che comprendere. Una società che confonde la legge con la giustizia, l’ordine con la cura, la morale con l’etica.
Allo stesso modo, l’ambizione che diventa coazione, che si nutre di ferite non elaborate, non è altro che il volto moderno della stessa alienazione: quella dell’essere umano che, pur di non sentire la propria fragilità, si condanna a performare. A vincere per non cadere, a possedere per non sentire, a farsi ammirare per non chiedere amore.
Eppure, proprio da questa consapevolezza può nascere una speranza. Una speranza radicale, perché fondata non sull’ottimismo ingenuo, ma sulla volontà di disinnescare i meccanismi che ci hanno portati fin qui. Significa recuperare una visione etica dell’esistenza e riscrivere la grammatica della convivenza umana partendo da un principio clinico fondamentale: la sofferenza non si cura con il giudizio, ma con la comprensione.
La trasformazione non avviene mai attraverso l’imposizione di un ideale, ma solo attraverso il riconoscimento profondo di ciò che è, qui e ora. Così dovrebbe funzionare anche la società: non come tribunale, ma come spazio relazionale che accoglie, accompagna e responsabilizza senza umiliare.
Abbiamo bisogno di una cultura che smetta di idealizzare la forza e cominci a valorizzare la consapevolezza. Che non insegua il mito della perfezione, ma promuova la libertà di essere interi. Che sappia distinguere tra un’etica del rispetto – fondata sull’ascolto e sulla presenza – e un moralismo dell’esclusione, che protegge solo chi si conforma.
Che si parli di fine vita o di inizio vita, di maternità scelte o negate, di suicidio assistito o di aborto, la domanda etica autentica non è: “Cosa è giusto per tutti?”, ma: “Come posso rispettare la dignità e la storia unica di ciascuno?”. Solo da qui può nascere una società davvero adulta: capace di sostenere senza dominare, di orientare senza costringere, di amare senza colonizzare.
In un tempo in cui troppo spesso il bene viene usato come alibi per l’esclusione, serve un nuovo umanesimo clinico ed etico, capace di coniugare libertà e cura, autodeterminazione e responsabilità relazionale. Perché non esiste vera civiltà se non riconosce, al cuore della sua struttura, il diritto di ciascuno a essere fragile, diverso, eppure degno. Non è questo il “bene” che dobbiamo inseguire. È questo il bene che dobbiamo diventare. Non è una battaglia tra “valori” e “libertà”. È una scelta tra il controllo e la relazione. Tra la paura e la cura. E la cura inizia sempre con l’ascolto.
di Edoardo Trifirò, Psicologo e Consulente in sessuologia
Il Giornale d'Italia è anche su Whatsapp. Clicca qui per iscriversi al canale e rimanere sempre aggiornati.
Articoli Recenti
Testata giornalistica registrata - Direttore responsabile Luca Greco - Reg. Trib. di Milano n°40 del 14/05/2020 - © 2025 - Il Giornale d'Italia