09 Maggio 2025
Il ruolo di Papa nasce dall'arte di costruire ponti, di unire, dal latino "Pontem facere".
Sembrerà forse banale, ma non lo è affatto. Pensiamo solo a Roma, Firenze, a Londra, Budapest e tante altre: città divise in due da un fiume, con la necessità di dover unire i lati opposti per consentire il passaggio di persone, merci, truppe militari, acquedotti e quant'altro si possa immaginare. Ipotizziamo solo cosa sarebbe Venezia senza ponti.
Un impero senza ponti non sarebbe mai stato un impero, ma uno spezzatino. I ponti rappresentano la continuità delle strade: pensiamo solo all'Appia Antica, la Regina Viarum, che da Roma arriva a Brindisi, o all'Aurelia, che sempre da Roma arriva in Spagna e al numero infinito di ponti necessari per poterle costruire. E così la Salaria, la via del sale, la Tuscolana, la Casilina, la via Francigena, etc.
Gli antichi romani erano grandi costruttori di ponti, arte appresa dagli Etruschi.
Simbolo di efficienza, forza, capacità, opulenza e soprattutto abilitatori di mobilità e del commercio.
Il ponte infatti era così importante che originò la nascita del primo e maggior sacerdozio romano: il Pontifex, o pontefice (pontem facere) era il "facitore di ponti".
Il Pontifex Maximus era il massimo grado religioso al quale un romano poteva aspirare. Era il capomastro della costruzione dei ponti, e sosteneva e curava l’arco religioso tra uomini e Dei, così come il cuneo sosteneva l’arco.
I poteri e i doveri della carica appartenevano ai Re di Roma fin dall’Ab Urbe Condita del 753 a.c. e dalla costruzione del primo ponte (il Ponte Sublicio, vicino all’isola Tiberina) e successivamente agli Imperatori, fino al 376 d.c. quando Graziano, con la diffusione della religione cristiana, rinunciò alla carica di pontefice massimo, che fu assunta dal vescovo di Roma, ovvero il primo Papa. Non una carica religiosa, ma quasi ingegneristica, appartenuta nei 1000 anni precedenti a Re e Imperatori, da Romolo a Numa Pompilio, da Publio Muzio Scevola a Gaio Giulio Cesare, da Cesare Augusto a Traiano ed Adriano.
I ponti consentivano di far transitare persone, carri, merci, animali, acqua e facevano parte di quel sistema infrastrutturale e viario che i romani ritenevano fondamentale e nevralgico per far funzionare uno dei principali “stati” del mondo, alla stessa stregua del ruolo del sistema circolatorio e nervoso del corpo umano.
Traiano fece realizzare ad Apollodoro intorno al 105 d.c. un ponte sul Danubio più lungo di 1,1 km (esattamente come il ponte Morandi), che gli consentì di invadere e conquistare la Dacia (odierna Romania), raggiungendo la massima estensione dell’impero romano. Per più di mille anni fu il più lungo ponte ad arcate mai costruito al mondo, sia in termini di lunghezza totale che di larghezza delle sue campate.
E dopo oltre 2000 anni infrastrutture e ponti sono ancora lì. Magari distrutti più dai barbari e dai secoli bui che dal tempo.
Ma una domanda sorge spontanea: si è perso il ruolo del “Pontefice”, il “costruttore di ponti”?
E gli archi si usano ancora? E lo stile, il senso, la bellezza?
Il ponte Morandi fu costruito tra il 1963 e il 1967 ovvero dopo il secondo dopoguerra, nel periodo del cosiddetto “miracolo” o “boom” economico, nell’ambito di una ricostruzione che ha fatto dell’orrido e dell’umanamente indegno il senso “ricostruttivo” e di sviluppo del “Bel” Paese.
Negli anni 60 ci furono varie crisi mondiali, iniziò la guerra fredda, la guerra del Vietnam, i missili a Cuba e la Baia dei Porci, l’assassinio di JFK e di Martin Luther King, il colpo di stato in Grecia, la primavera di Praga e i carri armati a Varsavia, i test nucleari, il fenomeno hippy, il terrorismo, la corsa allo Spazio, la Francia uscì dalla NATO. Anni difficili.
La costruzione delle vele di Scampia fu avviata nel 1962 e il progetto di Chernobyl fu approvato nel 1967.
Sempre in quel periodo furono “progettate” ed estese le orribili periferie di Roma (con il piano regolatore del 1962), di Milano, di Torino, di Napoli. E la lista potrebbe continuare senza fine.
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