20 Febbraio 2023
«In vent'anni abbiamo fatto progressi: sono nati i venture capital domestici, anche con l'aiuto di Cassa Depositi e Prestiti. Abbiamo avuto Ipo e alcuni unicorni. Ma il gap con gli altri Paesi resta, e nel 2023 dobbiamo svoltare. È in gioco la competitività del Paese». Con Roger Abravanel, director emeritus di McKinsey, membro del board di grandi gruppi internazionali ed esperto della comunità tecnologica di Israele, ClassCnbc ha fatto il punto sull'ecosistema a sostegno delle start up e delle giovani imprese.
Nel 2022 il mercato del venture capital ha rotto la soglia dei due miliardi, in crescita del 67% rispetto agli 1,24 miliardi del 2021. Nel 2020 erano 600 milioni. A spingere sono gli investimenti di fondi internazionali (+50% in un anno) e le operazioni sostenute direttamente dalle aziende (corporate vc). Tuttavia, secondo il Barometro di EY sul mondo del venture capital, in Italia l'investimento pro capite ammonta a 35 euro a testa, contro i 61 di spagnoli e i 150 di Francia e Germania.
Abravanel, come se lo spiega?
Tanto per cominciare, nonostante l'impegno di Cdp, manca spesso il cosiddetto lead investor. Il momento cruciale è quello della semina. Il seed, come si dice. Ovvero quando un piccolo investitore parte con il progetto. Poi trova il venture capital che lo alimenta con milioni di euro. La misura del successo o meno si ha solo con la exit, che si tratti di un'Ipo o di un semplice passaggio di mano. In Italia le start up sono poco finanziate. Ma mancano anche le capacità per la seconda fase, quella di cosiddetto scale up, ovvero il momento nel quale la start-up si fa crescere.
A che cosa serve?
Un network internazionale e la comprensione del business. E poi in Italia, per raccogliere soldi, bisogna passare per una sgr, che è troppo burocratizzata. Mentre questo è un mondo dove serve flessibilità. Sono tutti elementi che fanno da tappo.
La leva del fisco può essere utile?
No. A queste realtà non interessa molto delle tasse. In passato lo Stato ha provato a dimezzarle, ma quello che conta sono le opportunità. Per esempio sulla ricerca. Servono i soldi per farla bene. E un'università che funzioni. Meritocratica. Abbiamo troppo poche università tra le top 100 mondiali. Ad esempio, nel Deep Tech, la tecnologia profonda come i semiconduttori di prossima generazione o i super computer, siamo il fanalino di coda d'Europa. Il primo protagonista è il Politecnico di Zurigo. Che attira i nostri cervelli. Creando le start up che da noi non ci sono.
Dal 2020 Cdp Venture Capital, che ha 2,2 miliardi in gestione in 10 fondi, ha deliberato investimenti per un miliardo. L'obiettivo è raggiungere 5,3 miliardi in gestione entro il 2024. Non è poco.
Sta aiutando. Ma non in maniera risolutiva. Manca il pubblico che entri nel capitale quando non è disponibile quello privato. In Israele lo Stato ha detto alle aziende: io metto 100 e tu altrettanto. Se però l'exit vale 200 o 300, il margine in più lo lascio a te. In Italia si verrebbe immediatamente accusati di corruzione.
Ma le nuove aziende su cui investire ci sono?
Sì. Prenda la sanità: la nostra è tra le migliori al mondo e qui le iniziative non mancano. Con un potenziale fantastico nel biotech. Ma i soldi li mettono sempre i family office, non lo Stato. E poi da noi un ostacolo è la mancanza di cultura del rischio. In Israele un giovane imprenditore che fallisce apre un'altra società e ha la fila per investirci. In Italia se sei fallito è finita. È ancora una cultura un po' “bancaria”.
Le grandi banche italiane però negli ultimi anni hanno lanciato diverse iniziative per le start up...
Le banche non possono fare private equity, e non possono fare venture capital. Il board di una banca ha la mentalità di un risk manager. Come fa a fare investimenti che sono tutto rischio? Si tratta di fare dieci operazioni e guadagnare con una. Una banca, dopo aver visto le prime quattro o cinque fallire, ritira i finanziamenti.
Non ci buttiamo troppo giù. Imprenditori italiani hanno fatto nascere unicorni sia qui sia in giro per il mondo. Da Marchetti con Yoox a Beckerman di Depop o Mancini di Scalapay e Dalmasso di Satispay. E poi ci sono i soonicorn, le start up che vedono già il traguardo del miliardo di euro.
In Italia ci sono 16 unicorni, ma lo sono diventati con il venture capital straniero. Serve far nascere un venture capital nazionale che abbia la cultura del seed. Che si prenda i rischi di investire nel momento in cui le cose devono funzionare.
In che settore si aspetta nasca il prossimo unicorno?
Diversi campioni attuali sono nati nell'area del software as-a-service, soprattutto in campo bancario. Ma vedo altri spazi interessanti e meno frequentati. Ad esempio nel prop-tech, la tecnologia per il settore immobiliare, dove gli italiani hanno una parte importante dei loro risparmi. Si lavora a gestire il patrimonio finanziario con l'asset management, mentre le agenzie immobiliari e la gestione dei portafogli real estate sono rimasti 50 anni indietro.
(ha collaborato Adolfo Valente)
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