25 Novembre 2022
Giorgetti (fonte: imagoeconomica)
Giorgetti ha avuto pochi giorni per far tornare i conti della legge di bilancio e la "manovra senza visione" come ha detto Carlo Bonomi, risente pesantemente di una mancata programmaticità nel tempo: ovvero non guarda a marzo. E infatti è una legge d'emergenza, una legge del qui ed ora. Una legge con troppo trucco e troppa propaganda, che la dice tutta sui 21 miliardi spesi per l'energia: troppi per le risorse in cassa, troppo pochi per le emergenze nel breve termine. E a marzo? Stavolta il responsabile di via XX settembre ammette: "C'è necessità di sussidi". Perché dopo il fallimento europeo del price cap che come aveva anticipato Il Giornale d'Italia è irrealizzabile, il coraggio viene demandato ai singoli stati. Ed è un cane che si morte da coda: l'Europa non ha avuto il coraggio di fare deficit, devono averlo i singoli ministri. Dopo la manovra tedesca che ha impiegato 200 miliardi in extra deficit, toccherà all'Italia fare mosse coraggiose. Ma la situazione è quella che è, col prezzo del gas che sale e che scende e solo ieri ha toccato la vetta dei 270 euro a Mwh/h.
Adesso però a fronte dei pochi soldi e delle tante emergenze si apre il capitolo delle grandi crisi industriali, quelle che non aspettano. Dal futuro della rete Tim, alla cessione del controllo di Ita Airways, al destino della raffineria Priolo (Siracusa) oggi, fino al salvataggio degli impianti di Acciaierie per l’Italia a Taranto. A Bruxelles Giorgetti crede di poter strappare l'approvazione e di poter tornare vittorioso all'esame in parlamento dove, assicura, si è strategicamente ritagliato centinaia di milioni di margine per far fronte alle richieste ulteriori e per garantire gli obiettivi di finanza pubblica. Dal fisco in agricoltura agli incentivi alle imprese, i tentativi di allentare i vincoli non mancheranno.
Oggi Giorgetti è tranquillo ma riconosce a chi critica la manovra come Bonomi che l’unico rischio, non piccolo e riconosciuto esplicitamente dal ministro ieri, è che i nuovi sussidi sull’energia diventino necessari anche dopo marzo: "In caso ne parleremo con la Commissione Ue", ha ammesso.
Ma è per le crisi industriali che, prima di allora, serviranno nervi d’acciaio e una dose di fortuna. In quel caso la visione strategica non basta, serve la capacità di risolvere anche col rischio di fare nuovo deficit. La raffineria Isab di Priolo, controllata dal produttore russo di greggio Lukoil, è all'apparenza irrisolvibile dato il veto europeo sull'acquisto di gas russo che scatterà il 5 dicembre prossimo. Ne va di quasi il 15% della raffinazione in Italia, di 1.600 posti di lavoro diretti e di 10000 contando anche l’indotto. Un disastro. Poi c'è la prima strategia: riattivare le linee di credito attraverso altre banche che accettino di finanziare Lukoil anche se questa raffinasse greggio di altri paesi. Niente. Gli istituti di credito temono le sanzioni da parte degli Stati Uniti e danni alla reputazione per avere a che fare con entità russe.
La nazionalizzazione di Lukoil appare l'unica strada, l'altra è il fallimento. Il Wall Street Journal aveva fatto luce su come Lukoil lavorasse greggio russo che poi veniva rivenduto agli Usa, da allora le banche d'affari internazionali incroceranno le braccia e non aiuteranno più a trovare nuovi acquirenti per difendere la propria reputazione.
Il caso Lukoil è emblematico della tipologia di crisi industriale che l'Italia è chiamata a risolvere. Non tanto un problema di conti in ordine, quanto di reputazione e di soggezione. È come se al governo, alle banche e a tante imprese, mancasse proprio la capacità psicologica di affrontare il giudizio Usa. Lukoil è sì controllata da un consorzio svizzero, ma è formalmente collegata a Gazprom, colosso russo del gas. Non sarebbe soggetta a restrizioni, esattamente come non lo era il Nord Stream che era anch'esso collegato a un consorzio svizzero. Eppure le banche non finanziano qualcosa collegato alla Russia. Nella pratica non c'è nessun rischio, né per le banche né per gli acquirenti a comprare o vendere con Lukoil, c'è soltanto una grandissima voglia di fare bullismo a tutte le realtà collegate collateralmente con la Russia.
Altrettanto urgente è il dossier della rete di Tim. Anche se il ministro non ama l’interventismo di Stato, capisce l’obiettivo del controllo pubblico dell’infrastruttura. Ma non vede vie facili per l’operazione, perché sia la controllata Open Fiber che Cassa depositi e prestiti non sembrano affatto veicoli ideali. Dunque il rischio di un ricorso di massa alla cassa integrazione in Tim è tutt’altro che peregrino.
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