05 Settembre 2025
Sono anni che Carlo Verdone sembra vivere di rendita. Non tanto economica – quella non è affar nostro – ma artistica e simbolica. Da tempo ha smesso di incidere davvero nel panorama culturale italiano, confinato in un eterno remake di sé stesso, tra personaggi macchiettistici e regie di maniera. Eppure, come spesso accade a chi è stato grande, anche quando non ha più nulla da dire, ogni suo gesto genera eco. O meglio, ogni sua goffa scivolata.
L’ultima vicenda lo vede protagonista, suo malgrado – o almeno così vorrebbe farci credere – nella lista dei 1500 firmatari di un appello pro Palestina, finito al centro della bufera perché, in una seconda fase, avrebbe incluso l’invito a boicottare la presenza di due attori filoisraeliani, Gerald Butler e Gal Gadot, alla Mostra di Venezia. Verdone si difende: "Mi hanno messo in mezzo". Ma a metterlo davvero in difficoltà sono le parole di Silvia Scola, promotrice dell’appello, che chiarisce: “Lui sapeva tutto".
E allora? O Verdone ha firmato senza leggere – ipotesi già imbarazzante, per quanto in disarmo – o finge ora di non aver capito, per rimediare alla polemica. In entrambi i casi, resta una sensazione di scivolosità e opportunismo. In un momento in cui il cinema tenta di parlare con coraggio, anche politicamente, Verdone pare più preoccupato a proteggere la propria immagine che di prendere posizione con coerenza.
Il dubbio, legittimo, è che stia cavalcando la polemica per tornare sotto i riflettori, nei panni improbabili della vittima ingenua. Ma l’ingenuità non è una scusa credibile per chi ha fatto della lucidità comica la propria fortuna. Se si firma un appello, lo si fa con cognizione. Se si cambia idea, si ha il coraggio di dirlo. Altrimenti è solo fumo mediatico. E da Verdone, sinceramente, ci aspettavamo almeno un po’ di onestà, se non artistica, almeno intellettuale.
Di Aldo Luigi Mancusi
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