Sabato, 06 Settembre 2025

Seguici su

"La libertà innanzi tutto e sopra tutto"
Benedetto Croce «Il Giornale d'Italia» (10 agosto 1943)

A Palermo la carica dei 101 furbetti del cartellino. Che non sono furbetti ma farabutti

C'è una sottocultura gramsciana fondata sul ricatto, sul parassitismo, sul pretesto, che poteva reggere in tempi di vacche grasse ma che oggi non ha più motivo di sopravvivere; quanto al senso, non l'ha avuto mai, era clientelismo mafioso.

12 Ottobre 2023

Furbetti del cartellino

Antonio Gramsci teorizzando la questione meridionale fornì succulenti pretesti al meridionalismo opportunista che si ritiene perennemente dissodato dal nord predatore e sfruttatore, una sorta di Black Lives Matters ante litteram ma perenne: forse è colpa del nord avido e schiavista anche l’ennesimo episodio di “furbetti” – li chiamano così, con ammiccante tenerezza – che a Palermo timbravano all’entrata della municipalizzata dei rifiuti (alla lettera) poi sparivano: chi per shopping, chi per estenuanti caffè che duravano l’intera mattina, chi, nel modo più sbracato, a dormire in macchina, parcheggiata nello spazio della pubblica azienda: e nessuno diceva niente. Nessuno ha detto niente per mesi, nella consapevolezza generale, tanto che i carabinieri hanno potuto con tutta comodità manovrare il “rilevatore delle presenze”, insomma una telecamera, un dispositivo di sorveglianza, all’autoparco di via Ingham: ne è uscito un saggio di criminalità organizzata, perché questi sono criminali (ma la colpa è del nord fordista e schiavista). La carica dei 101 assenteisti, in arte furbetti, ha fruttato 1400 episodi di latitanza, per tremila ore d’assenza, che fanno 40mila euro di danno all’azienda di igiene ambientale, che adesso dovrebbe procedere di conseguenza e ripulire davvero.

Lo farà? Noi non lo crediamo, tanto più che la colpa affonda nell’annosa questione meridionale, nel perenne sfruttamento del nord avido e carognone sul sud depresso, volonteroso e mai sorretto. Una forma di ribellione, questa dei paraculi pubblici, che si ripete con regolarità cronometrica, rinasce dalle sue ceneri una volta a Palermo, un’altra a Catania, quella prima ad Acireale, che l’aveva ereditata da chissà dove. Non una esclusiva meridionale, va detto: resterà nei casi epici quello del vigile urbano di Sanremo che andava a timbrare in mutande e poi spariva: assolto insieme a 9 altri impiegati pubblici. Viva l’Italia.

Il caso palermitano però è più sottile, questa è gente di intelligenza sopraffina, “menti raffinatissime”, come dicono i bravi paesani dei boss quando vengono arrestati: non gli bastava timbrare e uccellare il dovere, se potevano ci mettevano la guarnizione: alcuni usavano il tempo lucrato per svuotare debitamente i serbatoi dei pubblici automezzi, dando luogo a un traffico nero di benzina oppure riempiendo fino all’orlo la propria macchina. Un capolavoro che esula da qualsiasi rimorso, al di là del bene e del male. Se si chiede a uno qualsiasi di questi campioni se per caso non si vergogni un poco, si ottengono risposte che vanno dal “che minchia vuoi” alle minacce in perfetto stile mafioso, fino a un sincero, sconcertato stupore: “Miih, ma che avrei fatto di male? Io sto a posto con la coscienza. È il nord farabutto che mi obbliga. Noi siamo discriminati e sfruttati”. Lo sono da oltre un secolo, e certi usi & costumi non cambieranno mai. È la mafiosità, diversa dalla mafia ma con quella imparentata: quel sentimento di connivenza generale, di comprensione reciproca, quella convinzione di poter fare quel che conviene essendo i più furbi, i più intelligenti, i più sofistici, e, all’occorrenza, i più spietati, comunque sempre i più derelitti e discriminati.

Sempre a Palermo m’imbatto in un video che mi lascia esterrefatto: due ragazzini litigano, uno prima stende il compagno, poi cerca meticolosamente di ucciderlo a calci in testa e ginocchiate in bocca; quando lo portano via, si lamenta come un animale ferito, chiede di poter finire il lavoro: gli amici gli dicono no, lascia, che poi arrivano gli sbirri. Avranno sui 15 anni al massimo, sono la stessa genia adolescente dei sette che hanno stuprato tutti insieme una malcapitata e dicevano: siamo bestie, siamo lupi su una pecora, siamo padroni. Chissà in quanti figli della carica dei 101 furbetti dell’azienda di igiene pubblica cittadina. Ma bisogna capire padri e figli: è colpa della questione meridionale, di questo nord criminale che non smette di depredare il Mezzogiorno radioso. Spostandoci dall’altra parte del Ponte sullo Stretto, che forse si farà ma non sia mai detto, a San Giovanni in Fiore, provincia di Cosenza, i cosiddetti ex percettori del reddito di cittadinanza, sentendosi espropriati, hanno aggredito il sindaco, Rosaria Succurro, tempestandole la macchina di pugni. Una reazione presociale, tribale. Se hanno smesso di lucrare il reddito è perché non avevano diritto, ma lì come a Napoli funziona così: lo Stato me l’ha dato, guai a chi me lo tocca. Il guaio è che la subcultura del ricatto, del sopruso, della rivendicazione, del pretesto poteva ancora reggere in tempo di vacche grasse: oggi le vacche sono finite e tragediare, minacciare, agitare i pugni serve a niente. Ed è giusto che sia così, perché la storia del dopoguerra repubblicano è essenzialmente storia di parassitismo clientelare per le ragioni più losche e strampalate. Cioè senza uno straccio di ragione.

Il Giornale d'Italia è anche su Whatsapp. Clicca qui per iscriversi al canale e rimanere sempre aggiornati.

Commenti Scrivi e lascia un commento

Condividi le tue opinioni su Il Giornale d'Italia

Caratteri rimanenti: 400

Articoli Recenti

x