12 Settembre 2025
Netanyahu, leader Qatar e Trump, fonte: Wikipedia
Il 9 settembre 2025 segna una frattura storica nei rapporti tra Israele e le monarchie del Golfo. Il raid aereo lanciato da Tel Aviv su una villa a Doha – obiettivo: alcuni esponenti di Hamas – ha superato un confine simbolico, politico e strategico. Colpire nel cuore del Qatar, partner chiave degli Stati Uniti e sede della più grande base americana nella regione, significa rompere ogni garanzia implicita di rispetto della sovranità degli alleati regionali. È l’ennesima dimostrazione dell’unilateralismo israeliano, ma questa volta le conseguenze rischiano di andare ben oltre la retorica delle condanne. Non si tratta più solo del conflitto tra Israele e Hamas. L’attacco su Doha rappresenta il punto di rottura tra la sicurezza intesa da Israele – come superiorità militare senza limiti – e quella delle monarchie del Golfo, che poggia su stabilità e diplomazia. Da Riad ad Abu Dhabi, da Manama a Mascate, cresce la consapevolezza che la strategia israeliana, sempre più spinta verso l’escalation, non sia più sostenibile. Tantomeno utile.
Il bombardamento in Qatar arriva in un momento già infuocato. Dall’inizio della guerra a Gaza, il rapporto tra Tel Aviv e le capitali del Golfo è diventato via via più difficile da giustificare. Le monarchie avevano tollerato, seppur con imbarazzo crescente, le operazioni militari israeliane in Libano, Siria e Gaza, vedendo in esse un modo per contenere l’influenza iraniana. Ma l’attacco diretto su Doha cambia tutto: Israele non ha più nemici “esterni” da colpire, ma si sente legittimato a colpire ovunque si trovino i suoi obiettivi. Anche a casa di mediatori, alleati o ex partner di normalizzazione. La reazione del Qatar è stata durissima. Il governo ha parlato di “terrorismo di Stato” e ha accusato Tel Aviv di sabotare deliberatamente i colloqui in corso per una tregua a Gaza. È morto un agente della sicurezza qatarina, altri quattro sono rimasti feriti. Il raid ha causato panico nella capitale, interrotto le trattative in corso e infranto la narrativa – portata avanti anche dagli Stati Uniti – secondo cui Doha fosse uno spazio protetto, diplomaticamente neutrale.
Ma è proprio Washington l’altro grande sconfitto del raid israeliano. L’amministrazione Trump, al potere da gennaio, ha espresso una flebile critica all’“opportunità” dell’operazione, ma non ne ha condannato il merito. Anzi, come già avvenuto per l’attacco iraniano alla base americana di Al Udeid nel giugno scorso, ha lasciato che fosse il tempo a spegnere l’incendio. Un atteggiamento che conferma ciò che molte capitali del Golfo temevano: la deterrenza americana non funziona più. Non verso i nemici, ma neppure verso gli alleati. La Casa Bianca appare oggi più spettatrice che arbitro. Mentre Trump stringe accordi economici visionari con le monarchie del Golfo, non è in grado – o non vuole – porre limiti all’aggressività israeliana. Una posizione che mina profondamente la credibilità americana e spinge gli Stati arabi a interrogarsi sulla sostenibilità dell’alleanza con Washington. Se nemmeno il Qatar – crocevia della diplomazia mediorientale, partner della NATO, alleato storico degli USA – è al sicuro, chi lo è?
Il paradosso degli Accordi di Abramo è ora evidente. Firmati nel 2020 con l’obiettivo di promuovere la normalizzazione tra Israele e alcuni Stati arabi, oggi sembrano traditi proprio da chi li aveva promossi. Gli Emirati Arabi Uniti hanno lasciato intendere che l’annessione della Cisgiordania rappresenterebbe una “linea rossa” invalicabile. L’Arabia Saudita, da tempo tentata dalla normalizzazione, ha raffreddato ogni apertura. E la visita del principe ereditario Mohammed bin Salman al presidente emiratino Mohammed bin Zayed, pochi giorni prima del raid, ha avuto al centro un solo tema: come rispondere all’inaffidabilità di Israele e degli Stati Uniti.
L’unità araba – spesso evocata, raramente praticata – torna ora ad essere un imperativo strategico. Il Consiglio di Cooperazione del Golfo si riscopre meno club economico e più alleanza difensiva. La Lega Araba chiede una strategia comune, che includa strumenti politici, legali e – per la prima volta – difensivi. Perché l’attacco a Doha ha messo a rischio la sicurezza nazionale non solo del Qatar, ma dell’intero sistema monarchico del Golfo.
Tel Aviv, colpendo a Doha, ha lanciato un messaggio chiaro: non esistono più limiti geografici alla guerra contro Hamas. Né confini, né mediazioni, né alleati intoccabili. Una postura che però rischia di ritorcersi contro lo stesso Israele, ora più isolato che mai sul piano diplomatico. E che – paradossalmente – indebolisce anche la posizione negoziale di Tel Aviv, proprio mentre si cerca una via d’uscita al conflitto. L’Iran, nel frattempo, osserva. Non ha bisogno di intervenire per destabilizzare il Golfo: basta aspettare che lo faccia Israele, con il silenzio complice degli Stati Uniti. La frattura tra il blocco filo-americano e Tel Aviv è ormai aperta. E da questa faglia può passare una nuova stagione mediorientale, ancora più incerta e pericolosa. Il Qatar, fino a ieri mediatore utile e interlocutore di tutti, è ora esposto. Ma con sé, lo sono anche Arabia Saudita, Emirati, Bahrein, Oman. Il conflitto ha varcato un nuovo confine. E le monarchie del Golfo, per la prima volta, sembrano disposte a dirlo chiaramente: così non si può più andare avanti.
Di Riccardo Renzi
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