28 Giugno 2025
Iran, Trump valuta ingresso in guerra e attacco a centrale nucleare Fordow, poi minaccia Khamenei: “Sappiamo dove ti nascondi”
Israele è arrivato a un passo dal collasso militare.
Durante i 12 giorni di guerra con l’Iran – silenziati in Occidente come se si trattasse di un mero incidente tattico – lo stato maggiore israeliano si è trovato a contare i missili rimanenti con preoccupazione crescente. Secondo un fine analista come il generale Maurizio Boni, alla contraerea israeliana rimanevano risorse per non più di quattro o cinque giorni di guerra ad alta intensità.
Senza il provvidenziale intervento statunitense Israele si sarebbe trovato nudo nel mezzo di una tempesta che lo avrebbe travolto.
Trump ha salvato Israele con i bombardamenti degli impianti nucleari iraniani di Natanz, Fordow e Isfahan dove sono state impiegate bombe Gbu-57S e missili Tomahawk per tentare di sgretolare i gusci di cemento armato e pietra che rivestono e proteggono gli impianti. In particolare gli USA hanno utilizzato 14 delle 20 bombe Gbu-57S di cui disponeva, con risultati tutt’altro che devastanti e certamente non decisivi. Le bombe di Trump hanno però offerto un salvagente prezioso a Israele, evitando una sconfitta dagli esiti potenzialmente letali per la credibilità e la tenuta di Tel Aviv. Trump, in sostanza, ha provocato un’escalation per ottenere una rapida de escalation.
Così il presidente USA, dopo le bombe, ha potuto annunciare al mondo una tregua provvisoria tra Israele e Iran. Gli Stati Uniti sono tornati quindi, sulla falsariga di quanto accaduto nel conflitto russo-ucraino, a ergersi a mediatori più o meno super partes, a fronte di proteste ufficiali formulate da gran parte del mondo nei confronti dell’Operazione “Midnight Hammer” e del crescente malumore degli Opinion maker e della base elettorale su cui Trump ha costruito il movimento MAGA. La situazione è sfociata nel paradosso, ai limiti del comico, con Teheran, Tel Aviv e Washington che si sono affrettati a dichiarare contemporaneamente di aver prevalso sul nemico nell’ambito di uno scontro che sembra tutt’altro che chiuso.
Uno degli esiti di questa guerra in aggiunta a quello che accade da 20 mesi a Gaza, è quello di aver squarciato il velo sulla vera natura di Israele, su un’entità fondata sul colonialismo da insediamento e sul razzismo e sul suprematismo.
Israele conta sul fatto che da sempre può permettersi tutto. Può bombardare, può massacrare bambini, donne, civili innocenti e innocui, può evocare minacce esistenziali da trent’anni – come quella nucleare iraniana, agitata da Netanyahu sin dal 1995 – e può soprattutto disporre di un arsenale nucleare mai dichiarato, mai ispezionato, mai discusso nei consessi multilaterali.
Nessun Trattato di Non Proliferazione Nucleare (TNP), nessun obbligo di trasparenza, nessuna ispezione IAEA. Ci aveva provato John Fitzgerald Kennedy a ricondurre nell’ambito delle regole internazionali il programma nucleare di Israele chiedendo a Tel Aviv di consentire l’ispezione del sito di Dimona da parte di una commissione tecnica internazionale. Tre mesi dopo venne assassinato a Dallas.
Allo stesso modo viene sempre più alla luce il paradosso del doppio standard occidentale con le sue contraddizioni che travalicano il ridicolo per sprofondare nell’assurdo.
Nel caso dell’Ucraina infatti la narrativa di fonda sul binomio aggressore e aggredito. Zelensky è David, Putin è Golia. La resistenza ucraina è sacra, l’invio di armi e denaro è giusto, anzi doveroso e indiscutibile. E alle armi si aggiungono pacchetti di sanzioni economiche alla Russia: si sta per approvare il 18.
Ma quando si tratta di Israele, la stessa retorica si capovolge: le migliaia di vittime palestinesi diventano “effetti collaterali”. E chi denuncia i crimini di guerra viene bollato come antisemita o nemico della civiltà occidentale.
In questo schema, la guerra dei 12 giorni è stata un banco di prova. Il sistema di difesa israeliano – sofisticato, multilivello, finanziato a peso d’oro dagli USA – ha vacillato e ha dimostrato tutta la sua precarietà e inadeguatezza. I missili iraniani hanno colpito i bersagli, hanno ferito al cuore Israele, e hanno sgretolato il mito dell’invulnerabilità di uno stato che viene rappresentato e si rappresenta come una potenza invincibile. La verità che è emersa chiaramente è un’altra: Israele non è affatto invincibile, anzi.
Un altro duro colpo è arrivato sul fronte economico. Il bombardamento iraniano del porto di Haifa ha avuto conseguenze strategiche immediate: la compagnia danese Maersk per esempio, leader mondiale nella logistica, ha sospeso gli scali nel porto israeliano. Una misura temporanea – e solo in parte rientrata – che mette seriamente in dubbio la sostenibilità del progetto di trasformare Haifa in un hub commerciale centrale per il corridoio alternativo alla via della seta cino‑russa‑iraniana. Il progetto occidentale di costruire un corridoio mediterraneo autonomo per aggirare l’Eurasia si è infranto quindi davanti alla realtà. La carenza di garanzie di sicurezza mina alle fondamenta qualsiasi progetto commerciale nell’area mediorientale.
Il doppio standard occidentale, oltre a essere ipocrita, è pericoloso. La guerra dei 12 giorni ha mandato un messaggio inequivocabile: solo chi ha l’atomica è al sicuro. Israele la possiede, senza averlo neppure mai ammesso ufficialmente, si stima tra 90 e 200 ordigni il complesso di armi nucleari di cui dispone Israele. L’Iran, al contrario. viene minacciato se anche solo osa arricchire l’uranio per scopi e utilizzi civili. E intanto, la Corea del Nord – che l’atomica ce l’ha, dichiarata e testata – osserva con interesse, intoccabile, come un monito vivente.
Il risultato? Un’escalation invisibile, ma inesorabile. I nemici di Israele e degli USA stanno traendo la sola conclusione logica: dotarsi di armi atomiche è l’unico modo per non subire ritorsioni, per sopravvivere alla legge del più forte. L’Occidente, con la sua protezione selettiva e la sua retorica a geometria variabile, sta creando proprio ciò che dice di voler evitare: la proliferazione nucleare come unica garanzia di sopravvivenza.
In questa cornice, la guerra dei 12 giorni non è solo uno scontro militare, ma una rivelazione geopolitica. L’Occidente collettivo ormai non giudica piu in base ai principi, ma in base agli interessi. E Israele, alleato d’acciaio dell’Occidente, può permettersi ogni cosa, anche il rischio di far precipitare il mondo nell’apocalisse della guerra atomica, sapendo che Washington correrà in soccorso. Ma a forza di usare due pesi e due misure, si finirà per rendere l’equilibrio globale più fragile, più armato, sempre più vicino al baratro.
di Marco Pozzi
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