09 Aprile 2024
arcelormittalfoto: LaPresse
Il Trattato del Quirinale firmato a novembre 2021 da Draghi, Macron e Mattarella aveva l’obiettivo di migliorare le relazioni franco-italiane nei settori industriale e culturale. Nelle aspettative della business community il Trattato poteva rappresentare un’alternativa all’asse franco- tedesco, come motore dell’Ue che permetterebbe all’Italia di ritrovare una sua adeguata collocazione, essendo esclusa di fatto dal rapporto privilegiato tra Francia e Germania dal secondo dopoguerra. Ma a due anni e mezzo di distanza, quel Trattato non ha avuto seguiti importanti, forse perché otto mesi dopo la firma Draghi ha lasciato Palazzo Chigi e al suo posto è subentrata Giorgia Meloni, che guarda alla Francia con occhi assai diversi.
Non solo in politica ma anche in economia, con l’esito che l’intervento italiano non è mai lineare , come nel caso di Stm dove il governo ha prima dato il suo via libera alla conferma dell’amministratore delegato JeanMarcChery, per poi chiedere un ribilanciamento della governance, dando segnali di confusione al mercato che ha reagito negativamente al momento di incertezza.
Nell’azienda di semiconduttori portata al successo da Pasquale Pistorio prima e Carlo Bozotti poi, il governo Meloni ha minacciato di non votare la riconferma alla guida del francese Jean Marc Chery, reo di aver estromesso alcuni manager italiani e di aver scelto Grenoble come sede di futuri investimenti. Lo strappo si è ricomposto con un’intesa che prevede l’ascesa del direttore finanziario Lorenzo Grandi nel consiglio di gestione, non più monocratico.
In Tim i rapporti sono tesi e potrebbero deflagrare nell’assemblea di aprile, con Vivendi pronta a votare per un nuovo cda che sconfessi lo scorporo della rete voluto dagli americani di Kkr e supportato da Palazzo Chigi. Una spaccatura che è solo l’ultimo atto del fallimento della campagna d’Italia lanciata da Bolloré nel 2015 e che gli ha portato una perdita di 3 miliardi su Tim e 5 anni di battaglie legali con i Berlusconi per il controllo di Mediaset. Il finale è ancora da scrivere ma la contrapposizione tra un governo e un gruppo privato, in essere da quando Cdp nel 2018 è entrata nell’azionariato di Tim, finora ha portato solo declino e nessuna politica di sviluppo.
Non un buon viatico quando si sente il ministro Urso, titolare del Mimit, parlare della possibilità per lo Stato italiano di entrare nella compagine azionaria di Stellantis – dove oltre a Exor e alla famiglia Peugeot siede lo Stato francese – per far sentire la voce delle fabbriche italiane. Il rischio è creare conflittualità tra soci. Come in effetti è avvenuto nelle Acciaierie d’Italia (ex Ilva), dove la società mista tra il gruppo franco-indiano ArcelorMittal e la pubblica Invitalia dal 2020
ha provocato un declino inarrestabile. Con la fuga di Arcelor in Francia, dove lo Stato ha messo a disposizione una bella fetta di soldi pubblici per decarbonizzare gli impianti di Dunkerque.
La logica del presidio pubblico in aziende strategiche è una prerogativa storica dello Stato francese che ha ottenuto di entrare con una piccola quota in Essilux, la società nata dalla fusione Luxottica-Essilor, dove i Del Vecchio controllano il 32% delle azioni. Ingresso di successo che ha avuto il consenso di Leonardo Del Vecchio, che aveva considerato politicamente sensato imbarcare il socio pubblico in un gruppo basato in Francia ma con gli italiani in controllo. Ora bisognerà vedere se, scomparso il fondatore, la famiglia riuscirà a essere così compatta da mantenere l’assetto.
Non è un mistero infatti che i francesi predichino il libero mercato fuori dai propri confini mentre non gradiscono incursioni straniere in casa loro. Gli esempi di barricate erette a protezione delle aziende nazionali sono molteplici, a partire dagli anni 80 quando Chirac si mise di traverso allo sbarco di Berlusconi a Parigi con La Cinq. Ma anche per la Star della famiglia Fossati l’accordo con la Danone fu impossibile, e pure per un cultore della Francia come Gianni Agnelli la conquista di Perrier fu ostacolata dall’alleato Antoine Riboud.
In tempi più recenti un duro colpo agli affari franco-italiani lo diede Emmanuel Macron quando, da poco all’Eliseo, mandò all’aria l’operazione che vedeva l’italiana Fincantieri, controllata da Cdp, prendere il controllo dei Chantier de l’Atlantique di St Nazaire per creare il polo europeo della cantieristica e della difesa. Stop riuscito, mentre sul fronte italiano nel 2011 nessuno è riuscito a opporsi (neanche il ministro Tremonti che varò troppo tardi una regola a protezione delle aziende strategiche) all’offensiva della Lactalis della famiglia Besnier su Parmalat, con lancio di Opa ostile su un’azienda che faticosamente usciva da un crac doloroso. In quel caso ci fu anche la beffa, visto che Lactalis pagò l’Opa con i soldi trovati nella cassa di Parmalat, frutto di otto anni di cause contro le banche portate avanti dal risanatore Enrico Bondi.
"Quando si valutano i rapporti tra Italia e Francia bisogna stare attenti a guardare il quadro complessivo.
L’interscambio commerciale è un buon metro di giudizio. Gli scambi tra i due Paesi sono intensi ed equilibrati –
spiega l’economista e politica francese Sylvie Goulard in una recente intervista a Repubblica – In termini di investimenti diretti la Francia è in effetti il Paese numero uno in Italia, viceversa l’Italia è la numero cinque in Francia. Forse questa differenza può spiegare i diversi sentimenti".
Forse, anche perché in genere quando le intese sono fra aziende ed hanno come base obiettivi di business funzionano, diversamente salatano. Le acquisizioni di aziende italiane in Francia si contano sulle dita di una mano, le più importanti sono quelle di Lavazza, mentre in senso inverso il flusso somiglia a una valanga. Anche per la disponibilità degli imprenditori italiani a vendere piuttosto che unire le forze e formare gruppi più grandi. Nella finanza e nella moda gli esempi sono numerosi.
Le battaglie sulle banche che hanno dilaniato l’Italia nel 2005 hanno permesso a Bnp Paribas di conquistare Bnl e al Crédit Agricole di accaparrarsi pezzi pregiati del sistema bancario del Nord Italia lasciati sul terreno da Intesa Sanpaolo, come Cariparma, Friuladria, a cui è seguito il Credito Valtellinese. E di posizionarsi per la zampata finale, con l’acquisto del 9,2% del Banco Bpm in vista di future evoluzioni. Sarebbe paradossale che dopo aver costretto le Popolari a trasformarsi in Spa (riforma Renzi del 2015), la più grande di queste, il Banco Bpm, fosse oggetto di conquista da parte della più grande banca cooperativa francese, il Crédit Agricole.
A ciò si può aggiungere che un manager francese, Jean Pierre Mustier, da numero uno di Unicredit ha praticamente smantellato il secondo gruppo bancario italiano vendendo la più grande fabbrica prodotti di risparmio gestito, Pioneer, ai francesi di Amundi. Nella moda i due grandi condottieri d’Oltralpe, Bernard Arnault e François Henry Pinault, hanno saputo costruire in vent’anni due conglomerati del lusso che fanno perno su marchi italiani, rilanciati grazie ad azzeccate scelte manageriali. Così Fendi, Bulgari, Loro Piana, Pucci, Belmond, Acqua di Parma, più il 10% di Tod’s, sono finiti nelle braccia di Lvmh, mentre Gucci, Bottega Veneta, Brioni, Pomellato, Ginori 1735 e il 30% di Valentino sono finiti sotto l’ombrello di Kering. In conclusione si può dire che quando il business è al centro, l’intesa Italia-Francia funziona, diversamente no.
Di Walter Galbiati
Fonte: Affari&Finanza (la Repubblica)
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