19 Maggio 2025
Fonte: Facebook
Remigrazione. Un termine esplosivo, al centro di uno dei dibattiti più divisivi d’Europa. Coniato nell’ambito della destra radicale mitteleuropea, il concetto indica il rimpatrio dei clandestini nei Paesi di origine, ma anche di quegli stranieri che scelgono deliberatamente di non volersi integrare. Nato in ambienti di metapolitica conservatrice, come quelli vicini all’austriaco Martin Sellner e al filosofo francese Renaud Camus (teorico del "Grand Remplacement"), il termine è oggi al centro del lessico di alcuni partiti dell’opposizione in Germania, Francia, Olanda. Non esiste una sola remigrazione: c’è quella “soft”, basata su incentivi al rientro; e c’è quella “hard”, che prevede espulsioni sistematiche.
Per i media mainstream è un’eresia. Per chi la sostiene, è l’ultima frontiera del dissenso politico. E proprio in Italia, a Gallarate, se n’è discusso – per la prima volta in modo ufficiale – in un summit internazionale che ha fatto molto parlare di sé. Ancor prima di cominciare. Doveva essere il congresso del male, e invece era solo un congresso.
Il Remigration Summit, tenutosi questo sabato a Gallarate dopo settimane di ostacoli, minacce e censure, è stato uno di quegli eventi che, nel loro piccolo, rivelano molto più di quanto si pensi. Anzitutto, ha rivelato la fragilità del discorso pubblico italiano, la sua intolleranza crescente verso qualsiasi voce fuori dal coro.
La location dell’evento è stata cambiata tre volte, causa boicottaggi, minacce e pressioni anonime – ma non troppo. La narrazione è stata costruita prima ancora che i relatori aprissero bocca: “estremisti”, “neofascisti”, “sovranisti internazionali”. Peccato che, in sala, il clima fosse civile. E che il pubblico – perlopiù giovane – fosse composto da “pericolosi” soggetti che desideravano soltanto confrontarsi.
Tra i relatori c’era l’attivista olandese Eva Vlaardingerbroek, le europarlamentari leghiste Isabella Tovaglieri e Silvia Sardone, il generale Vannacci, lo studioso belga Dries Van Langenhove, il portoghese Alfonso Goncalves, il giovane promotore lombardo Andrea Ballarati, classe 2001, e il politologo Freek Jansen. Un parterre internazionale, composto principalmente da volti under 40.
Per molti, remigrazione è ancora un termine sconosciuto. Per altri, è sinonimo di incubo ideologico. In realtà, ascoltando i diversi relatori, si coglie come anche all’interno dello stesso campo vi siano sfumature: c’è chi ne parla come di un obiettivo strategico, chi come di una necessità etica, chi come di una soluzione a breve termine per evitare – dicono – una “crisi irreversibile della civiltà europea”.
La Vlaardingerbroek, forse l’ospite più attesa e ammirata del parterre, dai lunghi capelli biondo nordico, ha aperto il suo intervento con parole forti: “Questo incontro finirà nei libri di storia, o come l'inizio della salvezza dell'Europa, o come l'ultima resistenza di un manipolo di fascisti che hanno osato fermare il mondo felice e arcobaleno”.
Ha parlato di di natalità, di "no-go zones" già presenti in molte città europee. Ha denunciato la perdita del monopolio della forza da parte della polizia in certi quartieri e ha definito quelle aree “territori occupati”. Ha poi parlato senza filtri delle violenze sessuali come strategia di conquista e di umiliazione.
“L’Overton Window si sta spostando, ma non abbastanza”, dice, e che il vero tabù non sono i discorsi sul clima o le tasse, ma quelli sulle dinamiche demografiche. “Ogni civiltà ha il diritto di sopravvivere. Questo è il nostro tempo: o ora, o mai più.” E ancora: “Se non cambiamo rotta, gli europei diventeranno minoranza in casa propria entro la fine del secolo. In Germania e Svezia, molto prima. E nessuna civiltà sopravvive diventando minoranza”.
Per Eva, la sala si è alzata in piedi in un fragoroso applauso. Poi, lei si è defilata da un’uscita secondaria, probabilmente proprio per evitare i numerosi giornalisti fuori che, intanto, si tuffavano sulla prima persona che vedevano disponibile pur di recepire una singola parola da poter riutilizzare.
Ad ogni modo, oltre che per curiosità intellettuale, ero là soprattutto per seguire l’intervento Jackie Eubanks, cattolica tradizionalista del Michigan, da me intervistata giusto la sera prima. Quando è toccato a lei, vestita tutta di rosa, con un discorso schietto e senza infingimenti, ha rivendicato la propria eredità americana – “discendo da chi ha fondato la Virginia nel 1638” – e denunciato il multiculturalismo come forma di dissoluzione sociale. Ha parlato di Detroit, di Dearborn, della sharia in territorio americano, di una nazione che “non riconosce più se stessa”. Ha invocato una moratoria totale sull’immigrazione.
C’è qualcosa di sbagliato in un dibattito in cui la parola “immigrazione” può essere detta solo in una direzione. In cui si può parlare di accoglienza, ma non di ritorno. In cui il pluralismo esiste solo sulla carta. Quando ho provato a far notare ad un giornalista che, purtroppo, non ci concentriamo abbastanza su, ad esempio, la mancanza di un’immigrazione qualificata verso l’Italia mi sono ritrovata un muro perché, di fatti, questa osservazione non può essere mica strumentalizzata.
Eppure, i dati parlano chiaro: secondo il Ministero dell'Interno, nel 2024 gli stranieri rappresentano circa il 34,7% delle persone denunciate o arrestate in Italia, a fronte di una presenza del 10% nella popolazione residente. Secondo stime riportate da Startmag, gli immigrati irregolari, pur rappresentando meno dell'1% della popolazione, sono responsabili del 28% dei reati totali.
Una percentuale che, al di là del clamore politico, danneggia prima di tutto chi è regolarmente integrato e vuole vivere in pace. È questa la vera discriminazione taciuta: quella nei confronti degli immigrati onesti, che ogni giorno subiscono le conseguenze della criminalità altrui e del caos istituzionale.
Allo stesso tempo, è essenziale ricordare che gli immigrati regolari rappresentano una risorsa per l'economia italiana. Secondo il Rapporto 2024 della Fondazione Leone Moressa, producono oltre 164 miliardi di euro di Valore Aggiunto, pari all’8,8% del PIL. Settori come l’agricoltura e le costruzioni dipendono in larga parte dal loro lavoro. E il saldo fiscale tra contributi versati e servizi ricevuti è positivo per oltre 1,2 miliardi di euro.
Queste due verità convivono, e solo chi è in malafede finge che una escluda l’altra. È proprio l’illegalità, non l’immigrazione in sé, a costituire la prima nemica dell’integrazione. Difendere la legalità, oggi, dovrebbe essere una battaglia comune: dalla destra alla sinistra. Un principio liberale, non ideologico, che ha a cuore la coesione sociale e la giustizia.
In tempo di conclusioni, sostanzialmente il Remigration Summit non è stato un momento di odio, ma un evento – riuscito – di dissenso. In una democrazia sana, non dovrebbe servire il coraggio per entrare in una sala conferenze. Anzi, forse è proprio ciò di cui ha bisogno oggi la democrazia italiana, considerando i suoi dati sull’assenteismo: recuperare un senso di partecipazione vera, soprattutto sui temi più difficili e scomodi.
Certo, la remigrazione è uno di questi, ma non è l’unico. E forse è stato proprio questo il limite più evidente dell’evento: aver concentrato tutto su un unico tema, senza allargare lo sguardo a una visione più ampia di futuro. Perché il dissenso ha valore solo se sa evolversi in proposta.
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