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Gaza, i motivi economici della "tregua": costo esagerato per Israele e Usa, stop a corridoi commerciali, pressing dal Golfo e $70mld di ricostruzione

Secondo molti analisti politici, la "tregua" a Gaza è stata spinta da costi di guerra, pressioni dei mercati globali e interessi energetici: l’economia internazionale chiede stabilità più della politica

12 Dicembre 2025

Hamas, Trump, Netanyahu

Hamas, Trump, Netanyahu, fonte: Wikipedia

Secondo sempre più analisti e osservatori geopolitici, la "tregua" a Gaza tra Israele e Hamas, mediata dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, è stata spinta più da motivazioni economiche, rispetto che umanitarie. Gli studiosi hanno per ora ipotizzato diversi motivi per mettere uno stop alle ostilità: il costo ormai troppo alto del genocidio per Israele e il suo più fedele alleato, ossia gli Usa, il quasi blocco dei corridoi commerciali, il pressing dei Paesi del Golfo e l'opportunità da 70 miliardi di dollari di ricostruire la Striscia.

Gaza, i motivi economici della "tregua": costo esagerato per Israele e Usa, stop a corridoi commerciali, pressing dal Golfo e $70mld di ricostruzione

Diversi osservatori internazionali hanno indagato le reali possibili motivazioni del "cessate il fuoco" indetto a Gaza il 9 ottobre. E, secondo molti analisti, quando una guerra appare “improvvisamente” vicino a una tregua, la spiegazione non risiede quasi mai in un risveglio morale improvviso dei governi coinvolti. Dietro le dichiarazioni ufficiali sulla “necessità umanitaria” o sulla “stabilità regionale” si muovono, in realtà, le forze strutturali dell’economia globale: capitali, investimenti, infrastrutture, corridoi energetici e interessi finanziari che hanno bisogno, a un certo punto, di un minimo di stabilità per poter operare. La "tregua" nel genocidio a Gaza non fa eccezione. Diverse sarebbero le motivazioni: il costo esagerato dell'economia di guerra per Israele e Usa, i corridoi commerciali bloccati fra Asia ed Europa, le pressioni dei Paesi del Golfo e una ghiotta opportunità da 70 miliardi di dollari per la ricostruzione della Striscia.

Il limite economico della guerra: un costo crescente per Israele e i suoi alleati

Ogni mese di guerra costa a Israele miliardi di dollari, non solo in termini di operazioni militari ma anche di danni al tessuto produttivo interno, crollo del turismo, perdita di forza lavoro dovuta alla mobilitazione di massa e instabilità finanziaria. Il saldo è sempre più negativo: il deficit è in aumento, il rating è sotto pressione, la fuga di investimenti esteri è sempre più grave e l'economia high-tech, il settore trainante del Paese, ha subito pesanti rallentamenti.

A ciò si aggiunge il costo per gli Stati Uniti, che hanno sostenuto militarmente e politicamente l’operazione, ma che ora osservano come il genocidio eroda il loro capitale diplomatico in Medio Oriente e rende sempre più difficile costruire alleanze economiche strategiche. In un contesto globale dominato da competizione logistica ed energetica, Washington non può permettersi un conflitto permanente che paralizza rotte, porti e corridoi commerciali.

La "tregua", in altre parole, non è un gesto umanitario: è il punto in cui il costo della guerra supera il valore dei suoi “benefici” geopolitici.

I corridoi commerciali bloccati: da Suez all’India-Europa

Il genocidio ha compromesso uno degli strumenti più preziosi per le potenze economiche: la fluidità delle rotte commerciali.
Il Mar Rosso, colpito dagli attacchi Houthi in risposta ai bombardamenti di Gaza, ha visto crollare il traffico navale e aumentare i costi di assicurazione e trasporto. Le navi hanno iniziato a circumnavigare l’Africa, allungando i tempi e generando costi enormi per l’Europa, già fragile sul piano energetico.

La stabilizzazione del Mar Rosso e la normalizzazione dei rapporti con gli attori regionali sono diventati obiettivi urgenti. Una "tregua" a Gaza è dunque funzionale al ripristino della sicurezza marittima, e quindi al flusso delle merci globali.

Anche il progetto Imec (India–Middle East–Europe Corridor), lanciato con grande visibilità e poi rapidamente paralizzato dal genocidio, necessita di una pausa nei combattimenti per poter essere riconsiderato dagli investitori. È un corridoio che interessa direttamente Stati Uniti, India, Arabia Saudita ed Europa. Senza "tregua", quel progetto rimane un esercizio teorico.

La “ricostruzione”: una gigantesca opportunità da 70 miliardi di dollari

Le stime preliminari parlano di oltre 70 miliardi di dollari necessari per ricostruire Gaza. Per molti governi e aziende internazionali, questo rappresenta un’enorme opportunità economica per imprese edili, società energetiche, infrastrutture idriche e di desalinizzazione, porti e logistica e tecnologie “smart city.

Una tregua è la condizione minima affinché le prime delegazioni economiche possano muoversi, firmare protocolli, aprire gare d’appalto, valutare rischi e assicurazioni.

In assenza di cessazione delle ostilità, nessun fondo internazionale può impegnare capitali: i flussi finanziari necessitano di almeno una stabilità temporanea per trasformare la distruzione in opportunità di investimento. La tregua diventa così un passaggio tecnico dell’accumulazione globale.

Pressioni dai partner del Golfo: stabilità per petrolio e diversificazione

Gli Stati del Golfo, partner fondamentali di Washington e Tel Aviv, stanno investendo miliardi nella diversificazione post-petrolifera attraverso progetti come Vision 2030 in Arabia Saudita o la crescita logistica degli Emirati Arabi Uniti. Per questi Paesi, un genocidio permanente a Gaza indebolisce i loro piani di apertura verso Israele, aumenta il rischio politico interno, danneggia l’immagine internazionale e destabilizza il prezzo del petrolio oltre la soglia gradita ai grandi esportatori.

La "tregua", dunque, risponde anche alle esigenze dei Paesi arabi che, per quanto alleati dell’Occidente, non possono permettersi un incendio regionale permanente.

La "tregua" come fase, non come soluzione

Gli analisti concludono che le tregue nate da motivazioni economiche raramente risolvono le cause profonde dei conflitti. La sospensione dei bombardamenti non deriva da un ripensamento etico, ma da un calcolo: l’economia globale chiede una pausa per rimettere in moto commerci, investimenti e progetti geopolitici. La "tregua" serve all’economia internazionale molto più di quanto serva alla giustizia. E proprio per questo, senza un cambiamento politico reale, rischia di essere soltanto l’intervallo tra due fasi della stessa strategia.

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