19 Aprile 2025
Meloni e Trump, fonte: imagoeconomica
È il momento di Giorgia Meloni. In un certo senso, tutto ciò che ha fatto negli ultimi anni è servito a preparare questa situazione: diventare il ponte tra una visione populista di destra e l'establishment europeo. Un ruolo che Matteo Salvini, prima di lei, non era riuscito a ottenere, ma che l'attuale Presidente del Consiglio sta svolgendo con grande abilità. Ha abbracciato, per esempio, la causa dell'Ucraina così come la necessità di inserirsi nella politica di Bruxelles, pur senza mai essere percepita come realmente vicina al sistema di potere attuale.
La vicinanza politica e culturale percepita con il mondo di Donald Trump è un chiaro vantaggio. Ha permesso a Meloni di presentarsi come la faccia amichevole dell’Europa nell’attuale momento di incertezza, con il Tycoon che spara dazi da tutte le parti. Nell’incontro alla Casa Bianca del 17 aprile si è vista l’importanza di questo legame, che ha permesso una discussione fruttuosa perfino quando le posizioni non erano propriamente vicine.
La domanda cruciale, però, è se questo nuovo ruolo dell'Italia sarà realmente utile per mitigare il furore protezionistico di Trump nei confronti dell'Europa. Un primo passo è stato compiuto: il Tycoon si è detto sicuro al 100 per cento che si raggiungerà un accordo, e ha promesso di venire in Italia per condurre le trattative. Sia lui che il vicepresidente JD Vance hanno ribadito di comprendere la necessità di trattare con l'intera Unione europea, smentendo così i timori che Meloni potesse cercare di dividere l’Europa, anziché lavorare nell’interesse comune. La partita è ancora all'inizio, ma anche in questo caso la premier dimostra di sapersi muovere con cautela, evitando provocazioni che potrebbero indebolire la sua posizione.
In termini di contenuti, i temi emersi finora riguardano due aspetti prevedibili, e altri due potenzialmente più significativi. Raggiungere il 2 per cento del Pil per la difesa è già previsto, così come è scontato che le imprese italiane aumenteranno i loro investimenti negli Stati Uniti. Acquistare più gas dagli USA, invece, così come mettere in discussione la web tax sui servizi digitali, sono punti che rappresenterebbero un costo per le economie europee: concessioni che potrebbero cominciare ad avere un peso nella trattativa.
Alcuni commentatori si chiedono se Meloni rischi di dare più di quanto potrà ottenere. La cruda realtà è che un simile esito è pressoché inevitabile. Questo perché nell’amministrazione Trump esiste un obiettivo generale che va ben oltre la questione della reciprocità di trattamento, spesso invocata da chi sposa una visione liberista del mercato. I protezionisti dell’area MAGA puntano invece a riportare l’industria manifatturiera negli Stati Uniti, indipendentemente dagli effetti sugli altri Paesi. Dopo oltre quarant’anni di delocalizzazioni e perdita di posti di lavoro, prevale tra i consiglieri più vicini al presidente la volontà di una reindustrializzazione radicale.
L’obiettivo non è del tutto realistico: serviranno anni per ripristinare la capacità produttiva, e in molti settori sarà praticamente impossibile farlo. Ma Trump non ha pazienza, e spinge per cambiare tutto subito. Questo renderà ancora più arduo il compito degli altri Paesi, perché l’America chiederà risultati difficili da ottenere nel breve termine.
È il modello generale, però, a rappresentare lo scoglio più importante. Durante la globalizzazione si cercavano i Paesi con i costi più bassi e poche regole su lavoro e ambiente; ora, invece, si punta a garantire l’occupazione per ragioni legate al benessere della classe media e alla sicurezza del proprio sistema economico. Questo porta a una nuova visione: produrre dove si vende. Un approccio perfettamente ragionevole, salvo nei settori in cui sono necessarie risorse o competenze difficili da sviluppare internamente.
Le conseguenze di questo cambiamento potrebbero essere pesanti per i grandi Paesi manifatturieri dell’Europa: Germania, Francia e Italia. Si tratta di economie fortemente esportatrici, grazie a una strategia consolidata e sostenuta anche dalle regole europee degli ultimi decenni: contenere i costi interni tramite restrizioni sulla spesa pubblica, e puntare sulla qualità per conquistare i mercati globali. Per anni la linea guida è stata che le PMI dovessero esportare il più possibile – un percorso in pratica obbligato, mentre si predicava l’austerità sul fronte del mercato interno.
Questo modello è alla base dello squilibrio attuale, in cui l’Europa esporta una grande quantità di prodotti manifatturieri verso gli Stati Uniti. È evidente che alcuni settori non sono facilmente replicabili altrove – si pensi all’agroalimentare o alla moda – ma in molti altri ambiti, l’eccellenza europea viene oggi percepita come una minaccia dai protezionisti oltreoceano. Forse, nel negoziato, sarà possibile offrire concessioni in comparti meno centrali per la produzione italiana – come il digitale e l’energia, anche se un aumento dei costi in quei settori penalizzerebbe molte imprese. Tuttavia, è ormai giunto il momento di riflettere su un cambio di paradigma rispetto al modello europeo: deve rimanere centrale una produzione di qualità, capace di competere a livello internazionale, ma serve anche potenziare il mercato interno, attraverso una politica di investimenti che comporta il superamento della visione austera codificata nei trattati europei.
Di Andrew Spannaus
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