30 Dicembre 2025
Zelensky, fonte: imagoeconomica
Mai, come in queste ore, risulta inverata la speranza che, attraverso la mediazione del Presidente Donald Trump possa giungersi a un accordo di pace tra Federazione Russa e Repubblica Ucraina che ponga fine ad una guerra dura e sanguinosa.
Accordo di pace che si dice, con un'endiadi priva di sostanziale significato, essere "giusta e duratura".
Ora di paci giuste e durature non vi è traccia nell'intera storia scritta dall'epoca dei faraoni ai giorni nostri.
I vari accordi di pace siglati dopo guerre sanguinose non sono state che parentesi rispetto ad altre guerre e, quanto alla giustizia, molto dipende dall'angolo visuale dei destinatari delle clausole degli accordi medesimi.
Ma probabilmente ad un accordo si arriverà in quanto coerente al ritorno di un nuovo (vecchio) imperialismo e quindi, in buona sostanza, agli assetti di un mondo deciso dalle potenze militarmente più attrezzate, USA, Federazione Russa e Cina.
Uno degli argomenti di cui si parla meno è quello dell'incidenza dei costi di ricostruzione della devastata Ucraina e di chi quei costi dovrà, necessariamente, sostenere.
La linea strategica del Presidente Trump sul punto risulta chiarissima.
Per lui gli americani hanno dato fin troppo e l'Unione Europea deve sobbarcarsi gli oneri finanziari dell'acquisto delle armi (americane) da girare alla repubblica Ucraina per la sua difesa.
Non solo ma il disimpegno dell'America dal fronte europeo comporta come necessaria derivata che gli oneri militari per la difesa dell'Ucraina da future aggressioni faccia carico quasi integralmente sull'Unione Europea.
Che dovrà sostenere, sul punto, un onere finanziario di proporzioni colossali.
Un altro punto evidente nella linea strategica del Presidente Trump è che gli Stati Uniti non metteranno un dollaro per la ricostruzione dell'Ucraina: anzi, per quanto fatto finora, sono stati già compensati con l'accordo sulle cosiddette "terre rare".
Nè gli stati Uniti d'America si batteranno particolarmente per l'utilizzo degli assets russi "congelati" nelle banche europee da utilizzare per la ricostruzione.
Infatti, con lungimiranza, l'Unione Europea ha evitato qualunque forma che possa rappresentare nella sostanza una "confisca" dei predetti assets in quanto ciò avrebbe minato in moddo irreparabile la credibilità e la reputazione dell'intero sistema finanziario europeo.
Ma il viaggio della repubblica Ucraina verso l'adesione all'Unione Europea sembra irreversibile e per di più nemmeno osteggiato, anzi favorito, dalla stessa Federazione Russa la quale, malignamente, cerca di addossare in tale modo all'Unione Europea gli immensi costi della ricostruzione.
La questione economica, come tutte le idee annidate, sembra ad oggi recessiva rispetto ad una soluzione che fermi il massacro tra i popoli e sancisca il ritorno, negoziato, del diritto internazionale quale mezzo di risoluzione delle controversie.
Ad oggi l'Italia ha pagato alla ferma solidarietà all'Ucraina ed al blocco occidentale un prezzo enorme, l'equivalente di una vera e propria imposta patrimoniale che si è abbattuta sui cittadini italiani attraverso il perverso meccanismo dell'aumento esponenziale delle bollette energetiche e delle materie prime a loro volta costituenti l'innesco di un'inflazione a doppia cifra difficile da combattere in quanto caratterizzata da cause esogene (e non dal classico ed antinomico divergere della domanda e dell'offerta).
L'Europa a mezzo dei suoi rappresentanti si è già detta disposta a finanziare la ricostruzione dell'Ucraina stimata ad oggi in circa 500 miliardi di euro che possono agevolmente raddoppiare.
L'Europa prende i suoi soldi dagli stati membri e quindi anche dall'Italia.
Attualmente il nostro paese si trova in una fase di desertificazione industriale terrificante: la follia della transizione "verde" imposta a marce forzate ha già distrutto un'intera filiera di eccellenza nel campo dei motori endotermici con perdite occupazionali tragiche sotto il profilo numerico.
L'eliminazione della Federazione Russa quale fornitore di gas ha costretto l'Italia a trovare nuovi fornitori a prezzo maggiorato con l'utilizzo di riclassificatori alimentati a gas liquido acquistato a prezzi esorbitanti principalmente dagli Stati Uniti.
Con le centrali idroelettriche ancora in attesa di un provvedimento normativa che, stabilizzando le concessioni, possa implementare l'efficientamento degli impianti.
E con un nucleare che a stento riesce ad essere pronunciato come concetto.
D'altronde l'idiozia ideologica di un referendum scellerato porta a ritenere che le centrali nucleari possano esistere a qualche chilometro dal confine italico ma non sul territorio italiano.
Come se un incidente in una centrale francese o slovena rendesse le radiazioni "inidonee" ad attraversare il confine.
D'altronde la produzione nazionale di idrocarburi e di energie eolico solari si scontra con l'oggettiva scarsezza dei combustibili fossili e con la tutela di un paesaggio di valore insostituibile.
La ricostruzione dell'Ucraina (a spese nostre) avviene su un territorio ricco di materie prime e perle rare già munito di centrali nucleari che potrebbero non solo aumentare ma anche essere sostituite con altre, più efficienti, di nuova generazione.
Il costo irrisorio delle energie potrebbe portare molte industrie a delocalizzare in Ucraina (d'altronde chi potrebbe negare la nobiltà di un simile gesto in favore di una popolazione invasa?).
Con conseguente impoverimento e desertificazione di quel che rimane della nostra industria.
Anche sotto il profilo della produzione bellica e militare gli ucraini con il sostegno americano posseggono ormai conoscenza e tecnologia per la progettazione e la costruzione di armamenti che andranno, inevitabilmente, in competizione con la nostra produzione.
L'Ucraina è un formidabile produttore agricolo: dategli pace e denaro a sufficienza e sarà in grado di schiantare la produzione agricola degli altri paesi europei.
E lo farà anche con denaro italiano sottratto ai nostri territori che hanno, come l'Ucraina, un disperato bisogno di aiuti per contrastare il dissesto ecologico (che sicuramente c'è) e il cambiamento climatico (della cui oggettività cominciamo a renderci tristemente conto).
Certo la popolazione ucraina non può che avere la nostra solidarietà ma cosa dire di tutta la forza occupazionale che sarà travolta dallo spostamento di ingentissime risorse ad est?
E che dire alle popolazioni intorno al Vesuvio per un piano di evacuazione a fronte di una eventuale eruzione (per la quale tutti facciamo gesti atropopaici) e per il quale occorrerebbero risorse che vanno al di là di due manovre finanziarie?
E della nostra rete idrica con intere regioni condonnate all'endemica mancanza di acqua e siccità?
Non è questione di "prima gli italiani".
E' questione di materiale buon senso.
I numeri sono da brivido. Secondo i primi calcoli, di fonte europea, il costo, stimato per difetto, per la ricostruzione dell'Ucraina si aggirerebbe tra i 750 e i 1.000 miliardi di euro oltre naturalmente i 6 miliardi di euro al mese necessari per il mantenimento ordinario fino a ricostruzione ultimata.
E tale "accollo di debito altrui" già stupisce in quanto impegnare l'Europa significa, per quota parte, impegnare anche l'Italia.
E' già a dir poco "bizzarra" questa traslazione impropria del peso economico risarcitorio dei danni derivanti dall'invasione dell'Ucraina da parte della Federazione Russa.
Traslazione impropria in quanto il principio di "responsabilità" quale elemento dello "ius gentium" impone che i danni vengano risarciti da colui che li ha causati e non da terzi soggetti in concreto, a loro volta, direttamente od indirettamente danneggiati.
Nè vale a mitigare il concetto di traslazione impropria di responsabilità il riferimento ad un ipotetico "piano Marshall".
Detto piano fu attuato alla fine della seconda guerra mondiale per mitigare le devastazioni dei paesi sconfitti all'interno di un conflitto mondiale e distruttivo.
Ora nonostante si cerchi di far apparire la guerra tra Federazione Russa ed Ucraina come guerra di principi e di ideologie tra autocrazie e democrazie, tra valori occidentali e valori non occidentali, iscrivendola in una cornice di "mondializzazione teorica" tale guerra è, allo stato, una guerra locale scatenata per "terra ed interessi concreti" e nei confronti della quale gli stessi Paesi NATO (e loro recenti affiliati) si muovono, nei fatti (anche se spesso non con le dichiarazioni) con estrema prudenza proprio per evitare che il conflitto degeneri da guerra locale a guerra mondiale.
L'Italia, a pieno titolo nell'Alleanza Atlantica, sta facendo il suo sia con l'invio di armi (votato dalla politica ma, secondo i sondaggi, con la contrarietà di oltre la metà del popolo italiano) sia con le sanzioni economiche la cui efficacia risulta non ancora del tutto conosciuta per quello che riguarda gli effetti concreti sulla Federazione Russa ma assolutamente certa nel suo impatto devastante sulla economia italiana.
Tenuto conto altresì che il peso delle sanzioni economiche sotto il profilo sia della riduzione del flusso del gas (per scelta propria o imposta dall'avversario), del petrolio, delle materie prime anche alimentari sta producendo un fenomeno inflattivo di poco inferiore alla doppia cifra falcidiando, senza pietà, salari e potere d'acquisto.
Dipendenza energetica che si abbatte sulle altre economie europee in forma asimmetrica: la Francia infatti è sostanzialmente autosufficiente con le proprie centrali nucleari mentre la Germania (dipendente più di noi dal gas russo) ha maggiori centrali a carbone già rimesse in funzione ed è pronta, in ultima istanza, a rimettere in funzione le sue centrali nucleari sempre mantenute in efficienza e mai smantellate.
Da tale quadro emerge con chiarezza che, alla fine, solo l'Italia rimarrebbe con il cerino in mano sotto il profilo della crisi energetica non possedendo centrali nucleari ed essendo molto indietro anche nella localizzazione dei riclassificatori che consentirebbero di poter utilizzare il gas liquido di produzione non russa.
E tenendo comunque presente che la sostituzione del gas russo con gas di altri paesi ha comportato comunque uno spaventoso aumento del costo dell'energia tale da mettere in ginocchio imprese prima e consumatori poi: il tutto all'interno di una cornice inflattiva inesorabile.
Nè di conforto per i cittadini italiani appare rievocare la pervicacia ostinazione della Commissione Europea per la cosiddetta "revisione degli estimi catastali" dietro la quale si celava, per ammissione espressa della stessa Commissione, il pressante suggerimento al Governo italiano per l'introduzione di una tassa patrimoniale sugli immobili ancora più pesante dell'attuale famigerata IMU. E che solo l'ostinata volontà di Forza Italia, della Lega e di Fratelli d'Italia ha, almeno per il momento, scongiurato.
Intere filiere produttive italiane dall'alimentare, al vinicolo, alle calzature, alla moda, alla metalmeccanica, al turismo stanno ricevendo un colpo pressocchè mortale dalle sanzioni contro la Federazione Russa: e quando perdi settore di mercato a favore di altri competitor poi diventa complicato se non impossibile riprenderli se non in minima parte.
In tale quadro economico la solidarietà dell'Italia nei confronti dell'Ucraina in tema di conseguenze economiche, accoglienza, invio di armi non può nè deve essere considerata nel perimetro di un piano Marshall non essendo evidentemente, allo stato, l'Italia belligerante o co-belligerante di alcuna guerra mondiale ma solo solidale, nell'effettività, con un paese aggredito al fine di evitarne la capitolazione e favorire un processo di pace negoziale.
Al nostro Paese l'Europa rischia di lasciare un'eredità "negativa" in termini di disperazione economica cui sarà complicato sottrarsi.
Non tutte le eredità portano bene. Alcune sono dannose ed infatti i giuristi romani le qualificavano quale "damnosa hereditas": particolarmente rovinosa per gli eredi da cui ci si poteva difendere esclusivamente con la accettazione "con beneficio d'inventario". Beneficio d'inventario che andrebbe traslato dal mondo giuridico al mondo politico per ridisegnare, con pragmatismo e realismo, la stessa nozione di atlantismo in forma matura e non dogmatica avendo come punto di riferimento, unitamente alla solidarietà, anche quello dell'interesse nazionale.
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