23 Dicembre 2025
C'è un momento in Olimpo Diverso che è saturo di Umberto Maria Giardini. È la lunga lancinante coda strumentale e vocale di Frustapopolo, vocalismi, quasi mielismi lacerati su una chitarra che ha perso la testa. Quella roba lì può sembrare semplicemente bella musica d'effetto e invece ci si scioglie un mondo, bisogna capirla e non la capisci se non ci sei nato, cresciuto da queste parti, in fondo alle Marche, se non hai battuto infinite volte quel tratto di Statale 16 Adriatica che va da Porto San Giorgio fino a San Benedetto prima d'inoltrarsi negli Abruzzi. Un tempo qui c'erano le puttane, prima italiane, feroci, butterate dalla vita, poi slave, balcaniche, quindi i trans, perché la globalizzazione ridefinisce anche la prostituzione, un arto zeppato fuori dalla macchina in sosta con lo sportello aperto a significare ingresso libero, ci fu un giudice rimasto famoso perché prediligeva quelle messe peggio, scolo, sifilide, aids, adesso non se ne trova più una. C'è solo lo squallore vuoto lungo quel nastro grigio d'asfalto fiancheggiato dalla strada ferrata dei treni merci o regionali che fanno la spola tra Ancona e Pescara. Qui viene voglia d'ammazzarsi. Se ci passi, se respiri quello squallore immedicabile, capisci la disperazione di Umberto che dalle basse Marche se n'è andato da tempo, che ha girato la Scozia, la metropoli da cui traeva ispirazione per una delle sue incarnazioni, Molteni, dal nome di una farmacia, quindi Bologna dove ci fa il pompiere e ha messo su famiglia, ma se la porta dentro quella sensibilità sgomenta. Beato te che sei volato via, amico mio. Ma posso raggiungerti compulsando i tuoi dischi, uno più bello dell'altro, l'ultimo sempre migliore del precedente. Umberto Maria Giardini è di quelli che sembrano sempre esordienti, di quegli outsider orgogliosi, “fu la fortuna mia, brillare d'antipatia”, e invece suonando suonando ha anche lui quasi 40 anni d'arte e vera arte sulle spalle; è uno degli ultimi radiosi tramite di una stagione d'autore, a ponte tra gli onusti delle scuole romana, ligure, bolognese e una nuova generazione di indipendenti capaci, a volte in modo pedestre, altre eccelso, di assorbire le tendenze anglosassoni, dal post punk al grunge, alla wave, al neo rock sintetizzandole in una prospettiva personalissima. Italiana ma per niente ruffiana. Penso al povero Paolo Benvegnù, penso all'altro amico, Umberto.
È esercizio di retorica giornalistica, per mio conto, mettersi a spiegare quest'ultimo capitolo, contenuto, non esagerato, ma a raggiera: c'è dentro tutto quello che Umberto vuole e si sente di essere a 60 anni, dalle fiammate hard alla melanconia autoriale, agli sperimentalismi onirici di Capire prima che accada e “Ho provato invidia per la tua morte”, con riferimenti ai Radiohead non ancora persi nelle astrusità elettroniche, fino al ritorno identitario di Molteni, all'epitome giardiniana di Paga la vita, così solo sua, così unica, al congedo di Acquaforte che potrebbe essere benissimo uscito da un qualsiasi album precedente, con quella melodia cercata, ricercata, classica, memore della tradizione romanza, perfino operistica. Il valore aggiunto di un autore come lui, tornato nella copertina come quel “Cristo a cui non credo”, è proprio questo ricordarsi, senza ipocrisia e senza viltà, delle radici; poi che questi retaggi risultino filtrati in una confezione sonora del tutto originale, grazie al gruppo e in particolare alle chitarre creative, evocative di Marco Marzo, è ulteriore pregio. Ma bisogna tornare alla cifra dello spleen, che impregna tutto il disco. Qui Umberto è davvero Maestro, con la maiuscola, nel comunicare una sensazione inconfondibile, che avvolge, che travolge, prende alla gola, soffoca ma la vuoi. È la colonna sonora per quella Statale, in quest'altro inverno maledetto, in questa solitudine inferma, gonfia di domande spaventose, “cosa rimarrà domani di noi due?”.
Ecco io non perderei del tempo a dire quanto sia felice questo lavoro, se mai irrinunciabile una volta che l'hai scoperto: Umberto Maria Giardini fa dischi da conservare, perché il dolore non invecchia. E lo fa da quasi 40 anni, a modo suo, senza rispondere a nessuno tranne la sua coscienza di uomo e di artista, suonando e suonando, affinando il vocalismo spiegato, aperto, trasognato a volte, sussurrante come ruscello finché non si rompe nel canto dell'angoscia: allora è l'infinito perdersi in fondo a Frustapopolo e tu la ascolti in macchina e ti scorre davanti la vita, così inutile, così perduta, così puttana, così falsa, così crudele, così bella, così puttana, allora rivivi le rinunce, l'epica sommessa del tuo resistere, rivivi la tua malattia, che non passerà mai, rivivi l'Idroscalo, il “mare dei poveri di Milano” dove ti portavano bambino ed era già come la Statale 16 e tu imparavi quella disperazione fatta di onde, quella vibrazione definitiva, la assorbivi, ti entrava nel sangue, diventava anima, la tua creatività, il modo distorto e commosso di interpretare il mondo. E allora vorresti dirgli grazie a Umberto, perché quell'urlare è voce tua, perché senza più parole ha detto tutto, perché la vita è una puttana che ti ammazza, perché quello che ti manca è tutto il resto, perché sei pieno di quelli andati via, “ricordati di me, parla di me, non lasciare che io muoia invano”. Perché la disperazione più profonda può essere sublime e piangere può essere sublime, piangere mentre scrivi queste righe tormentato dal non saperlo fare meglio di così.
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