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Benedetto Croce «Il Giornale d'Italia» (10 agosto 1943)

Sull'inappagato, il simbolismo e il decentramento del soggetto attante: alcuni cenni alla questione proteiforme del desiderio Oggi

Il desiderio è una questione prettamente politica. Questo perché entrambi, desiderio e Potere, agiscono con moto ondulato: simulano e dissimulano, tracciano limiti per poi sfondarli. Con loro il dinamismo del soggetto è un'erranza vagabonda, omologante, ormai patologica

29 Ottobre 2025

Sull'inappagato, il simbolismo e il decentramento del soggetto attante: alcuni cenni alla questione proteiforme del desiderio Oggi

L’idea di fondo, che già affiorava in me in tempi pregressi ad alcuni grandi, recenti disastri di carattere “ecosofico”, era che il desiderio, la sua sfera politica, andasse incontro a una “surcodificazionesistematica tale da omogeneizzare laddove risiedono delle differenze e in seconda battuta gestire la capacità autopoietica dei soggetti (anche la cultura può essere pensata, per questo verso, come un sistema vivente e creante) secondo forme di appartenenza che non collettivizzano più il dato esperienziale e traducono la differenza in separazione, atomizzano le esistenze e riproducono norme dove il simbolo è riferibile solo al generale e il generale assunto a postulato di felicità.

Quanto più si assiste a una forma di desiderio erratica, alla Lacan per intenderci, che non può essere soddisfatto col possesso del suo oggetto, e tanto più, oggi, essa assume il verso di una sua declinazione mimetica. In questo Girard, col concetto di “desiderio mimetico”, è stato molto chiaro, e vi sono delle affinità fra i due pensatori. Il desiderio più dirompente non è un possedere ma un essere posseduti, e quanto più il suo oggetto diviene irrilevante per valore intrinseco, tanto più si manifesta in questa forma.

Sull'inappagato, il simbolismo e il decentramento del soggetto attante: alcuni cenni alla questione proteiforme del desiderio Oggi

Se la macchina del sistema è tale da veicolare e avvalorare tipologie di desiderio di questo tipo non è per una “vocazione” alla liberazione, ma al contrario per l’adeguamento che ne segue a dei modelli, dei codici. Così il possesso somiglia sempre più a uno spettro, qualcosa che non si incarna sedando il desiderio, qualcosa che rimanda sempre ad altro e precisamente ad un desiderio, non secondario, verso lo status stesso di chi già possiede. Questo vale sia per la sfera relazionale, amorosa, che per quella materiale, e il suo svolgimento è una ricerca di mimesi o di emulazione di un soggetto-modello. Ma se il Potere riesce a inoculare nel corpo sociale una forma del desiderare (che eminentemente non può appagarsi, pena la sostituzione di un vecchio oggetto di esso con uno nuovo) tipica dell’usa-e-getta sia morale che materiale, questo avviene perché il Potere è già di per sé una forma patologica e paranoide di possesso che per il suo mantenimento deve necessariamente far leva sulla simulazione e l’assimilazione.

Uno degli elementi rigenerativi dei sistemi di potere è proprio quello che si avvale della normalizzazione del "clinamen" del desiderio, della sua irriducibilità a norma, della sua potenza eversiva, con un andamento concessivo che lo iscrive in un corpus regolamentato tale da farne un simulacro vuoto di adempimento e desublimazione. In altri termini è sempre più economico, sempre più conveniente anche per un Potere inflessibile, mostrare questo grado di elasticità e comportarsi come una Potenza nietzschiana che prima del dominio adempie all’imitazione.

V’è sempre qualcosa di sotterraneo e sommerso nell’ambito della pulsione, che esclude l’Altro e in definitiva la ragion d’essere dell’intersoggettività, ed è la eco del “dire” nel corpo. È anche vero che essa non mira al soddisfacimento ma a essere costante e inesauribile. In questo non ha una ragione spiccatamente biologica volta alla cessazione della stimolazione o eccitazione dell’”apparato psichico” (come nel Nirvana sensoriale tematizzato da Freud nei suoi scritti più “arditi”, e che legava Eros a Thanatos affidando alla morte lo scopo stesso di ogni forma vivente). In altre parole un desiderio che non si esaurisce sovverte la necessità biologica e l’ottenimento del fine, ovvero il suo fine è procrastinabile, differibile o delocalizzato, e in definitiva il suo oggetto resta indifferente, potendo sussistere anche senza di esso o in virtù di oggetti analoghi che assolvano allo scopo, sempre provvisorio, di quello che è un “appetito” inestinguibile nonché pregresso all’esperienza dell’oggetto che lo intercetta.

Ora, per tornare, al discorso della valenza politica del desiderio è bene recuperare termini di deleuziana memoria, come quello di “territorio” ma proiettandolo verso altre zone del discorso. Il territorio è una forma di possesso ma sempre rivedibile, e investe il soggetto di una appartenenza solo in virtù di entrate e uscite da esso, il che rende tale possesso di un tipo assai particolare e nomadico, mutante, tale da creare una continua tensione tra radicamento e sradicamento. Il suo aspetto, per così dire fluido, lo rende un possesso non-possesso che afferisce a un senso di “chez moi”… E per rimontare al nostro discorso sul Potere, esso sa ben gestire le questioni di territorio soprattutto relativamente a questo sentimento di familiarità, offrendo versioni di radicamento sostituibili dallo sradicamento non prima che abbiano assolto alla loro funzione di omogeneizzazione: ovvero di definizione di norme e di normalità, di simboli e desideri. Occorre capire che il Potere dissimula la legittimazione per poi simularla, definisce dei limiti per poi superarli; e in questo gioco perverso le soggettività sono sempre più eteronome e eterodirette, o indifferenti, in quanto partecipano di un orizzonte del desiderare funzionale ai rapporti di dominio e di classe e al loro definirsi storico secondo la forma erratica della gestione del desiderio stesso.

Ciò che è auspicabile oggi per l’uomo medio, ciò che è per lui desiderabile, passa attraverso il setaccio del suo esserci storico, che non è altro che la risultante di spinte contrastive e di assimilazione, differenziazione e omologazione. Un corpus di norme sociali e costumi, deve essere ricreato prima di essere abbandonato o sovvertito, così come la cristianizzazione della poiesi mitica pagana ha generato secoli fa delle forme ibride di assimilazione e riconversione. Ma perché dico che il desiderio è sempre una questione politica? In primo luogo perché pertiene l’ordine simbolico e il linguaggio, sia esso concettuale, della parola o somatico; e in secondo luogo perché definisce strettamente gli spazi di legame tra le diverse soggettività e il tipo di rapporto che tra loro intercorre. La pulsione è certamente un elemento su cui far leva per un Potere paranoide e “identificativo”. Identificarsi significa abbattere la differenza attraverso un gesto di simulazione, e questo avviene per i singoli come per le comunità. Un mondo in cui i simboli non chiamano sangue versato è già inconcepibile in Nietzsche, che per la figura del Cristo aveva un'ossessione forse ambivalente. Ma già nel filosofo tedesco, v’era il grund di una comprensione profonda di come il Potere con tutti i suoi armamentari morali e ontologici, fosse da ricondursi a mille divieti e interdizioni cui la sofferenza come imprinting finiva per dare la fisionomia di una ineluttabilità di fatto.

Oggi si assiste a un tale conformismo di usi, di parola, e in definitiva cognitivo, che il significato stesso della parola “Potere” dovrebbe essere riveduto alla luce di un uovo concetto di legittimazione non più descritta dal pendolo inesausto tra divieto e concessione, ma dalla produzione di simboli e modelli privi di ogni concretezza sul piano del loro valore effettivo o anche solo della loro sfera di funzionalità. Se l’immagine ha sostituito la presenza, è perché siamo stati sotto il dogma culturale che ha elevato a dogma l’avvaloramento del concreto a partire dal simbolo e non viceversa; ovvero ciò che è desiderabile è sostituibile in ogni momento non tanto per il valore intrinseco, come dicevamo, ma per una questione di territorio e appartenenza rimontanti non tanto al possesso concreto come al fatto nudo del possedere e al chi possiede o non possiede.

Ecco che agisce l’imitazione. Ecco che si ha l’illusione di differenziarsi attraverso una omologazione che tiene in ostaggio le identità e il loro farsi al mondo sotto l’egida dello sradicamento costante. Valori che appena secoli fa erano consolidati da pratiche ataviche, sono oggi sostituibili o rivedibili nel giro di mezza generazione, e la vera prigionia è il “tutto è consentito”, tutto è “lecito” purché porti al successo, ovvero ad una realizzazione esornativa e tutta esteriore. Il nuovo conformismo è potenziato anche da un consenso ormai pulsionale e diretto, e non mediato da forme di imposizione o coercizione, proprio perché avvalorato da una sfera del desiderio patologica, orientata a modelli e non a oggetti reali o persone reali. Niente di più mediato in realtà, ma niente di mediato dall’alto verso il basso, quanto una realtà in cui tutti sono uguali ma senza amore e con un senso crescente di frustrazione presso la sfera del piacere che fa a cozzi col lato deliberatamente concessivo di cui accennavamo. 

Il meccanismo della delega, poi, che è solo uno dei tanti esempi di pratica espressione di democrazia, ha visto un suo surplus allargato a ogni ambito (altro esempio di atrofia della soggettività più piena, e, paradossalmente, proprio in cuore all’individualismo spinto) per cui le competenze sono solo comparti tecnici, e l’umanità è più povera e meno plurale, dove infine la differenza non è sostanziale ma protocollare.

Il Potere di Ieri è a ben vedere lo stesso di Oggi (sebbene sia oggi più gesuitico e proteiforme) ma è ciò che ha esercitato, camuffato da concessione e ottemperanza a falsi miti, all’imitazione in luogo della creazione, dall’accessibilità a tutti i costi che rende inservibile lo sforzo di superare il limite, che è stato decisivo per la sua conservazione; e non intendiamo un limite imposto ma un limite intrinseco nel dinamismo di un soggetto che non possiede in senso proprio ma direziona il suo desiderio risolvendo problemi, che è incline alla scoperta, nemico della falsificazione e del semplicismo, del conformismo come pratica assuefatta e scelta secondo criteri eteronomi e di asservimento.

Se il desiderio conserva la sua carica rivoluzionaria è perché ancora non è un oggetto posseduto o da possedere, ma la chiave di volta di architetture metonimiche del piacere e della felicità, il mistero di una scoperta che non si esaurisce nel sintomo ma rimanda a una ricerca febbrile non dell’ottenimento ma del senso stesso di un volere erratico, nomade, dislocato nel soggetto più che nella meta. Ma è questa una lama a doppio taglio, considerate le premesse di cui parlavamo, e un conformismo desiderante è la foggia più esiziale di conformismo, perché mira alla radice un auspicabile progetto di pienezza e felicità di ogni soggetto sociale e politico.

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