26 Ottobre 2025
La celebrità si fa rifugio dall’inquietudine. La rinascita avviene in solitudine, e questa diventa condizione necessaria per l’espressione autentica del proprio Sé, una liberazione da ogni vincolo. Un biopic che si trasforma in metafora di fantasmi familiari, la storia di molti, in bilico tra la promessa del successo e l’ombra del proprio passato. Un registratore a quattro piste e una ferita da sanare trasformano la solitudine in materia prima, riportando alla luce i fantasmi di un padre violento e anch’egli ferito. In questo senso, il «nulla» del titolo non è un vuoto astratto, ma una zona di sospensione tra ciò che si è vissuto e ciò che si potrebbe diventare: lo spazio in cui la voce si raccoglie.
Questa dimensione risuona con la clinica: spesso la creatività urgente nasce dal desiderio inconscio di colmare quel nulla — metafora ripresa anche nel trailer, quando si dice che «nel pavimento della stanza di Bruce, il riparatore aggiusta il buco che ha dentro di sé e nel mondo intero». È un film sul rifugiarsi per poter tornare, un percorso di riconnessione con il sé infantile — fragile, perduto, desiderante. Tre linee si intrecciano nel racconto: il lavoro e la produzione artistica, con l’industria discografica che preme, impone, e l’artista che risponde con sottrazione, silenzio, minimalismo; l’eredità familiare e i traumi trasmessi — il padre, la madre, la casa, i suoni del passato che ritornano — con la consapevolezza che il genitore violento è anch’egli una vittima traumatizzata, incapace di trasmettere altro che il proprio buco; e infine la casa, la patria, l’appartenenza: la casa non è rifugio automatico, può essere prigione o isolamento.
L’America — Nebraska, Little America, la città di uomini morti — diventa così metafora di un paesaggio interiore, di uno stato dell’anima. Il film non è solo biografia, ma paradigma per molti che, nel lavoro che svolgono, nella musica che amano, nei traumi che non hanno elaborato, si riconoscono: l’arte come processo di liberazione da ciò che ancora trattiene. Le immagini, sospese tra bianco e nero e colore, suggeriscono che il futuro “a colori” non è garantito; i suoni — la chitarra, il registratore economico, l’autoradio, la fisarmonica — agiscono come antenne dell’invisibile. Il film rende tangibili i condizionamenti invisibili e i rituali ripetuti; l’uso della voce diventa proiezione di dinamiche esistenziali. La scena finale, in cui il padre chiede al figlio di sedersi sulle sue ginocchia, assume un valore catartico: non un trionfo convenzionale, ma un riconoscimento tardivo, un patto silenzioso che chiude un ciclo e ne apre uno nuovo. E tuttavia, in mezzo a tanta verità emotiva, il film non è immune da qualche cedimento al cliché, che rischia di scivolare nella prevedibilità e di attenuare per un attimo la crudezza e la verità psichica del racconto: frammenti da manuale sentimentale che tolgono un po’ di tensione autentica alla narrazione. Ma, paradossalmente, anche in questi cliché si riflette il bisogno universale di teatralizzare la mancanza d’amore, di trasformare il trauma in scena: l’illusione romantica come tentativo disperato di riscrivere la ferita.
Il film invita ad andare oltre il mito e a guardare l’uomo, a riconoscere la sofferenza intergenerazionale, gli ambienti che generano traumi, il bisogno di autenticità e di concedersi la distanza per ascoltare il proprio eco. Non è solo la storia di Springsteen: è la storia di chiunque abbia cercato di uscire dal nulla, dal vuoto, dall’attesa. Il silenzio può essere rumore, la domanda può diventare azione, la canzone può farsi redentrice. Questo film non è soltanto per i fan del rock, ma per chi ha avuto bisogno di un grido per ricordarsi vivo. Il ritmo è calibrato, senza cedimenti al facile epico. Dal punto di vista psicologico e simbolico, il film offre materiali di riflessione sul lavoro, sulla creatività, sulla famiglia, sulla paura del successo e sulla possibilità della vera libertà.
Chi cerca un biopic canonico da grande stadio potrebbe restare spiazzato: qui non ci sono esplosioni di rock-show, ma sottrazione, ombra, silenzio, vulnerabilità. Ed è proprio questa la forza: mostrare che il grande atto creativo nasce dalla fragilità e dalla lotta. Springsteen è un uomo che contempla il vuoto e decide di cantarlo. Un uomo che scopre che la vera casa è quella forma di verità che possiamo abitare dentro di noi. Ecco perché questo film tocca: perché parla di lavoro, di amore, di famiglia, di fallimento, di riscatto. Perché rivela che anche una rock-star può sentire il vuoto, e che proprio in quel vuoto può trovare la canzone che lo salva — e forse, che salva noi. Per chi vive la cura, il consulto, l’accompagnamento — per chi è semplicemente umano — questa è una storia che invita a mettere mano al proprio registratore interno, a riascoltare la voce che abbiamo spinto in un angolo, a chiedere: «Chi sono davvero? Qual è la mia canzone?» E infine, a liberarsi dal nulla.
di Edoardo Trifirò
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