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"Dalle tenebre alla luce", Simone Cristicchi torna alla musica per proporci un capolavoro di intransigente dolcezza

Canzoni come poesie per dirci tutto, non una parola di più ma neppure una di meno. Canzoni complesse nella loro semplicità, aliene nella melassa che avvolge la fine della musica; ma scaldano, mettono in crisi, tengono compagnia. Da frequentare. Cos'altro è l'arte?

26 Giugno 2024

Simone Cristicchi

Conosco Simone Cristicchi e lo conosco abbastanza bene e da abbastanza tempo da poter dire che non è mai cambiato. Cresciuto sì, è un artista e un uomo, cambiato no: intatto quel trasalimento, l’incanto di chi si perde nell’incanto a costo di ferirsi. Cercando anzi la ferita. Ma Simone sa difendersi, la sua scorza di purezza non inganni: assaporato il successo esagerato e subito dopo le ombre ignobili che si porta sempre appresso, ha scelto, senza risponderne a nessuno tranne a se stesso, un’altra strada, si è dato al teatro con opere scomode, ingrate, dalle Foibe alla guerra, adesso incarna gli stracci di libertà di San Francesco e questo ritorno in musica, “Dalle tenebre alla luce”, è il parallelo perfetto: qui c’è il Santo e ci siamo noi, poveri diavoli, poveri cristi nella nostra scintillante fragilità.

Quel trasalimento: Cristicchi torna dopo undici anni come uno che ha da proporre solo quello che si sente, ma di quello che si sente non nasconde una sola nota, una singola parola. Le parole, già: immagino lo sforzo, in questi dieci pezzi, preferisco chiamarle composizioni, non c’è un solo termine, un’assonanza, non c’è sospiro che non sia cercato, cesellato. Immagino l’impegno, queste sono dieci poesie, autentiche, dieci trasalimenti, dieci gioielli – non gioiellini, gioielli compiuti, perentori nella loro mitezza. Non alza mai i toni, ma le cose da dire hanno tutta la durezza dell’amore, la crudeltà dell’introspezione, hanno la polemica violenta della poesia contro un mondo musicale che ormai s’è arreso – stendiamo qui mille veli pietosi, non vale neppure la pena parlarne. Cristicchi oppone un’arte di musico antico che risale su per li rami della tradizione arcaica e arcana, dai trobadour provenzali, occitani, che tropavano, escogitavano versi e melodie su impianti liturgici, fino alla moderna canzone d’autore, con vaghe reminiscenze di scuola romana (“Le poche cose che contano”), tentazioni latine (“Sette miliardi di felicità”), escursioni delicate nella world music (“I tuoi occhi”). Ma sono scarti d’artista che si diverte a diversificare un po’ i colori sonori. Il tutto legato da una misura d’arrangiamenti, di moduli stilistici così discreti, così calibrati, curatissimi, proprio belli ma che con ogni chiarezza vanno al servizio del concetto, di queste liriche così lievi ed ispirate, in punta di piedi ma che non lasciano scampo. Immagino, sì, l’ispirazione, la tensione. Sono preghiere: e, quando si cantano preghiere, il rischio del melenso, del pretesco è sempre in agguato, spunta presto come l’odor di sagrestia, di vino da Messa. Qui no. C’è troppa convinzione, troppa esigenza di poesia. Il quarantasettenne che ogni sera si cala nella miseria sontuosa misteriosa di Francesco che si spoglia ai piedi del padre, Pietro di Bernardone, facoltoso commerciante di stoffe che vuol fare del figlio il principe di Assisi, ha voglia di stanare chi lo ascolta, propone un confronto che sconcerta per quell’esigenza ormai dimenticata, da più parti rinnegata di confidenza, quel “ti dico tutto, dimmi tutto” che poi è l’amore. Nessun cinismo e nessuna predica: il momento forse, dico forse, più alto, più ispirato, certamente più necessario per me, che ascolto rapito e dolente, sta in “Accade”, invito a perdonarsi, a non rinnegare la propria imperfezione sconcertata, confusa, ambigua, il male che siamo ma che non deve vergognarsi di sé così come non deve indulgere in sé, non deve dilatarsi, moltiplicarsi. Sono sollecitazioni impegnative, urgenti, in forma di una poesia bruciante. Sommessa sempre, sottomessa mai. Sono scintille che mettono in crisi per l’umanità che serbano, prendi l’iniziale “Il clandestino”: qui non c’è politica facile, non ci sono messaggi per suggestionare chi ascolta con due slogan in croce, la prospettiva è tutta umana, non ci sono giudizi, ci sono occhi: un disgraziato ti sfiora con la sua ombra al semaforo e tu tiri dritto ma dentro di te lo sai che non è giusto, che potevate scambiarvi i ruoli, che a chi tocca tocca e a questo punto la fede di un santo chissà se sorregge, se soccorre, tu comunque sgommi via, lui resta, ombra di un’ombra, con tutto l’orgoglio della sua disperazione. Le certezze crollano addosso a lui non meno che a noi… Così cerchiamo, noi come Simone, una parola sola come la pietra filosofale che tutto spieghi, tutto risolva, ma non c’è; e forse la sua consistenza sta proprio nell’assenza, nella ricerca che, come per il Dio che si nasconde, non può finire perché trovare significa uccidere.

Conosco Simone Cristicchi da anni, e da anni gli chiedevo di tornare a fare dischi. Perché ogni volta c’era più bisogno di musica vera, di un artista troppo fuori dai giochi per indulgere a compromessi. Ma che sprechiamo a fare anatemi? I responsabili sono troppi e li avete tutti nelle orecchie, insanguinate orecchie cui non basta sottrarsi ai mercanti di vergogna. “Lo sai che c’è bisogno di te, lo sai questo. Allora, quando ti decidi?”. “Quando sarà ora”.

È arrivata l’ora e io vi dico che perdere questo album sarebbe farsi un torto: perdereste una medicina per l’anima, una poesia per l’amore, perdereste la compagnia di un amico accorato, mai saccente, che ti prende per mano e ti accompagna per quel sentiero così pieno di buche, di solitudine, di desolazione assolata che è la vita.

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