09 Dicembre 2025
Con la mostra delle opere di Nicola Samorí, inauguratasi il 27 novembre, la Pinacoteca Ambrosiana (il più antico Museo di Milano che custodisce la memoria visiva di una città razionale e ordinata), “incontra” il Museo di Capodimonte e Real Bosco di Napoli (che incarna, per contro, l’eredità spirituale della città partenopea). In realtà, sotto il titolo “Classical collapse” le due famose istituzioni, peraltro depositarie complementari della vicenda visiva italiana, hanno inteso proporre coraggiosamente un’articolata provocazione sull’opportunità di rivisitare oggi creativamente la classicità che esse tanto virtuosamente custodiscono. Frutto della collaborazione di Demetrio Paparone, Alberto Rocca (direttore della Pinacoteca Ambrosiana) ed Eike Schmidt (direttore dell’Istituzione napoletana), l’evento non consiste in una “doppia mostra” bensì in una “operazione culturale unitaria” che, dico io, sarebbe… logico visitare nella sua interezza. Per quanto concerne l’Ambrosiana, l’opera più eclatante esposta di Samorí è costituita da un monumentale dipinto (5 m. di altezza x 10 m. di larghezza) che dialoga fragorosamente con il cartone preparatorio per la “Scuola di Atene di Raffaello” (fig. 1). La simbolica scala che l’artista urbinate ha inventato come “theatrum” del luminoso pensiero antico e, perciò, di tutte le certezze tradizionali, dialoga con una scala ancor più vistosa ove si consuma clamorosamente, invece, il disfacimento delle certezze assolute. Quest’opera di Samorí sembra piuttosto la quintessenza del nostro tempo, la metafora drammatica di un mondo transeunte, monumento però alla persistenza delle tracce del passato che sembrano costituire una sorta di materia disponibile per ulteriori proposte concettuali. Mi vengono simultaneamente alla mente le opere dell’irlandese Francis Bacon se non addirittura i corpi straziati di certi dipinti che, nel secondo dopoguerra, sono stati rappresentati dallo statunitense Wiliam Congdon. Davvero interessanti sono certamente le misteriose sculture in marmo di Samorí che gli organizzatori hanno contrapposto ai preziosi relitti del monumento funebre realizzato da Agostino Busti (detto il Bambaia) per Gastone di Foix (fig. 2): la finezza con la quale Samorí destruttura il corpo umano nei blocchi di marmo statuario di Carrara (fig. 3) fa legittimo riferimento alla minuzia che l’artista lombardo cinquecentesco ha utilizzato nelle sue composizioni, quasi svuotandole della loro tradizionale consistenza. Più che al simbolista Adolfo Wildt e alla sua quasi calligrafica perfezione stilistica viene da pensare ai lacerti di classicità proposti da Igor Mitorai (che svuota bronzee statue di dei ed eroi mitologici) piuttosto che i preziosi marmi miracolosamente svuotati da Gigi Guadagnucci (fig. 4) della loro naturale consistenza: di questo raffinatissimo artista ho spesso ammirato la maniacale capacità di smaterializzare blocchi di marmo statuario, originariamente grevi come macigni, per rivelarci forme perfette e vibranti come fatte di carta velina. Il lavoro di Samorí sulla materia si estende magistralmente anche al legno: fra le longilinee colonne del suggestivo, antichissimo spazio ipogeo che ora ospita la Chiesa dedicata al Santo Sepolcro, gi organizzatori della mostra hanno collocato quattro sculture che Samorí ha ottenute sviscerando altrettanti altri tronchi d’albero: egli ne ha quasi inseguito e interpretato la capricciosa vicenda naturalistica e la pregressa storia. Qui la materia con la quale l’artista si esprime diventa oscura, quasi fradicia o combusta, contaminata dal tempo come, mutatis mutandis, ha fatto Alberto Burri nelle sue materie degradate (figg. 5 e 6). Composizioni come “L’uomo dei dolori” o “La Via Crucis”, si districano fra le spire del legno, fra le venature, i nodi e le lacune della storia dei luoghi che ospitavano l’albero. Come ultima riflessione sull’interessante manifestazione espositiva desidero accennare alle cosiddette “nature morte” di Samorí che gli organizzatori hanno sacelto di collocare nella Sala Federiciana della Veneranda Biblioteca accanto alle tradizionali bachece che propongono ciclicamente i disegni di Leonardo tratti dal Codice Atlantico. Realizzate operando su parallelepipedi di marmo o di lastre rame, le nature morte proposte da Samorí riprendono suggestivamente il tema della vanitas con riferimento evidente alla cultura fiamminga di cui la Pinacoteca Ambrosiana conserva opere magistrali: i fiori rappresentati nelle sue nature morte non si limitano a suggerire il loro tendenziale, naturale e ineluttabile deperimento ma sembrano affermare che quel degeneramento stesso è ancor più profondo e strutturale. Nel caso di una lastra di onice alabastrino sul quale si stagliano consunti tulipani (fig. 7), Samorí usa deliberatamente una sostanza di origine idrotermale che evidenzia curiose lacune naturali quasi per dimostrare che il degrado (che è certamente una precisa metafora della condizione umana) non è mera questione iconografica ma è un fenomeno intrinseco alla materia stessa. Riassumendo, l’opera di Samorí costituisce un’affascinante dimostrazione che tanto il messaggio artistico che il suo linguaggio sono in continuo divenire e si nutrono, anche capricciosamente, della materia concettuale formatasi ed elaboratasi nel tempo; essi metabolizzano il passato e ripropongono alcuni grandi temi della vicenda umana. Samorí sembra realmente incuriosito e affascinato dalla caducità terrena, dalla fragilità strutturale della materia di cui noi stessi e le cose siamo fatti: memento mori!
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