19 Luglio 2022
“Che tristezza se Kosuth mi ritaglia per la cinquantesima volta una voce di dizionario e me la ingrandisce in negativo, [...] che tristezza se continuiamo a tagliare delle tele tese, che tristezza se (dopo alcuni decenni che si discute sul momento della morte dell’arte diventa produzione dell’idea di se stessa, idea della forma anzichè forma dell’idea) non si dovrebbe accettare la conseguenza ultima di questo fatto: se ancora l’artista può produrre in proprio, sciamanicamente, un oggetto, un comportamento, non può che farlo solo la prima volta, e se questo averlo fatto la prima volta ha un senso, la seconda volta dovrà essere qualcun altro che lo fa con lui o dietro di lui: non può esserlo lui a ripeterlo”.
Questa una delle tante illuminanti affermazioni di Umberto Eco (Alessandria, 5 gennaio 1932 – Milano, 19 febbraio 2016) sull’arte contemporanea contenuta in ‘I due lati della barricata’ del 1977, raccolto insieme ad altri articoli di giornale e saggi da Vincenzo Trione per l’editore La nave di Teseo. Che fine abbiano fatto oggi lo Strutturalismo, la Semiotica, la Semiologia e tutta la biblioteca che contraddistingueva quella critica d’arte e una certa ‘linguistica strutturale’ ce ne dà forse notizia “Sull’arte” in 1051 pagine, a tutti gli effetti l’ultimo libro del grande professore medievista, scrittore e in primis linguista e successivamente, autore televisivo e massmediologo.
Discorsi il cui modus operandi forse oggi viene evocato indirettamente da filosofi come Giorgio Agamben o Mario Perniola, oppure dal francese Edgar Morin nella sua più leggera manifestazione di politica della attualità (autore di ‘Una testa ben fatta’ sott. riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, 1999) o in Beppe Sebaste (Porte senza porta, sott.incontri con maestri contemporanei, 1997) insita nella pratica di maestri come Munari che alla luce della teoria della complessità può ricordare l’approccio linguistico ‘strutturale’, alla cui base stavano certe analogie. Ma neanche sarebbero da escludere alcuni enciclopedisti -anche francesi- forse oggi attribuiti a un campo considerato politicamente diverso perché, é anche doveroso dirlo, una certa cultura era accampata proprio in quegli anni nel dibattito socioculturale proveniente dalla critica letteraria marxista che finì per monopolizzare le universitá, complice una certa spartizione di poteri parlamentari ed extra, che la rese da rivoluzionaria quale era, a ‘dominante’, e quindi l’espressione di quel mondo che Eco avrebbe dovuto combattere e che invece si trovò paradossalmente a rappresentare. Metafore con epoche e stili che contraddistinguevano anche le opere dell’Eco scrittore, passato invece al successo solo negli anni 80 come autore del romanzo storico - giallo: “Il nome della Rosa”, di cui poi sono state realizzate pellicole blockbusters famose come quella con Sean Connery e fiction netflixiane, tuttora in onda, e finito nella galassia della letteratura di classici come Borges e di libri ‘bestsellers’ alla Ken Follett.
Ma nelle stanze accademiche era più conosciuto per “Opera Aperta” (1962), o per “Come fare una tesi”, o per i più esigenti: “La struttura assente” del ‘68, ripreso in questa raccolta per la sua centralità dedicata al mondo dei mass-media... ricordiamo anche il successivo “Il superuomo di massa” del ‘76 in cui presagiva l’avvento della situazione politica-televisiva degli anni 80-90. Erano i tempi in cui si leggevano anche Bateson, o Ricoeur sul concetto di ‘sacro’ o alterità, (a cui Eco preferiva gli autori medievali), le varie interpretazioni della psicanalisi freudiana e dell’antropologia con Jaques Lacan o dei vari Jakobson e Levi Strauss, e poi Michel Foucault, autore ad es. di “Questo non è una pipa”(1973), sull’opera di Magritte alla maniera di Wittgenstein, per non dimenticare la psicologia di Jung e la sua ‘memoria collettiva’.
Molti i nomi e i libri citati da Eco nei suoi scritti -forse troppi- eppure di periodi e secoli diversi, nel rispetto di una diacronia onnipresente perchè alla ricerca dell’arte come ‘problema’ linguistico anzichè stereotipo visivo: Dino Formaggio, Roland Barthes, Alexandre Dumas, oppure Walter Benjamin o ancora artisti concettuali come Piero Manzoni o il Mantegna di 400 anni prima, senza dimenticare il medioevo. Quelli di Eco, gli anni 60, erano anche gli anni dell’arte francese del ‘Noveau Realisme’ di Pierre Restany, di Arman, Cesar, dei famosi ‘impacchettamenti’ di Christo Javachev, derivanti dalle avanguardie d’inizio 900; degli scritti di Paul Valery e della fenomenologia di Maurice Merleau Ponty e del suo ‘l’occhio e lo spirito’(1960) appendice della fenomenologia; mentre in Italia -non solo Pop Art- l’Arte Povera di Germano Celant diede l’opportunità ad Eco di contribuire in maniera fondamentale, chiarendo che alcune opere non erano altro che ‘sintomi’, e non rappresentazioni figurative, come avviene per i tagli dei quadri di Lucio Fontana da intendere piuttosto come lacerazioni.
Immerso e continuatore di quella tradizione che guardava alla Francia o perennemente rivolto al dramma totalitario dell’Europa, Eco scrive: “Mentre si crede che l’avanguardia artistica non abbia un rapporto con la comunità degli altri uomini tra i quali vive, e si ritiene che l’arte tradizionale lo conservi, in realtà accade il contrario: arroccata al limite estremo della comunicabilità l’avanguardia artistica è l’unica a intrattenere un rapporto di significazione del mondo in cui vive” (Opera aperta, 1962). In conclusione duole constatare come gli scrittori o i linguisti di oggi sembrano occuparsi meno delle arti visive se non a sproposito, spesso vedendo una netta separazione tra ricerca, politica, mercato e Stato oppure no -solo per ottenere incarichi- mentre in Eco tutto ciò era intrinseco e fecondo, nonostante tutto. Va anche aggiunto che agli esordi della sua attività gli venne affidata la curatela di alcune esposizioni, all’estero e in Italia, (fertile il suo rapporto con Giulio Carlo Argan) e questo lascia perplessi di fronte ai curricula dei nostri accademici migliori, usi a far attenzione a troppe cose (come le parcelle), per non oltrepassare la barricata di uno status quo più improbabile che reale.
La nuova guerra in Ucraina d’altra parte, fa nascere gravi dubbi su una politicizzazione esasperata di cui si fece portavoce l’Eco degli ultimi anni, gettando del fango su una ricerca estremamente limpida per l’arte contemporanea che non può essere messa in discussione per onestà intellettuale, se ancora esiste una storia dell’arte, oggetto si, di revisionismo ma non di ‘negazionismo’. Forse è per questo che nel testamento ordinò: “Non autorizzate convegni su di me per i prossimi dieci anni”. Come dargli torto?
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