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Milano, licenziata per molestie a un collega, Cassazione conferma il provvedimento: "Condotta contraria ai valori della realtà sociale"

La Suprema Corte ha anche sottolineato come i comportamenti della donna avrebbero "rallentato la produttività dell'azienda"

03 Giugno 2025

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Aula Tribunale. Fonte: Imagoeconomica

La Corte di Cassazione ha annullato nei giorni scorsi la sentenza con cui la Corte d’Appello di Milano aveva giudicato sproporzionato il licenziamento per molestie sessuali di una dipendente di uno stabilimento produttivo legato al marchio del lusso Louboutin, con sede a Parabiago, nel Milanese. La donna aveva molestato il collega, nuocendo alla produttività dell'azienda e comportandosi "contrariamente ai valori della realtà sociale".

Milano, licenziata per molestie a un collega, Cassazione conferma il provvedimento: "Condotta contraria ai valori della realtà sociale"

I giudici della sezione Lavoro della Suprema Corte hanno accolto il ricorso presentato dalla società, ritenendo fondate le ragioni del datore di lavoro e rinviando la causa a un nuovo giudizio d’appello. Secondo la Cassazione, la Corte milanese aveva errato nel valutare la gravità del comportamento della lavoratrice, riconoscendo sì la fondatezza dei fatti contestati, ma ritenendo eccessiva la sanzione espulsiva per l’assenza di precedenti disciplinari e di conseguenze rilevanti sull’organizzazione aziendale.

La vicenda risale al 10 marzo 2023, quando l’azienda ha licenziato la dipendente con una lettera di contestazione nella quale si parlava di “frasi a contenuto sessuale e attenzioni indesiderate” rivolte, in più occasioni e in modo continuativo, a un collega. L’azienda aveva anche segnalato che tali comportamenti avevano interferito con la normale attività produttiva, arrivando a rallentare i processi di lavorazione nel reparto controllo tomaie.

La lavoratrice aveva impugnato il provvedimento davanti al Tribunale del lavoro, che aveva dato ragione all’azienda, qualificando la condotta come “contraria al vivere civile”. Tuttavia, la successiva sentenza della Corte d’Appello aveva ribaltato quella decisione, giudicando il licenziamento una misura eccessiva e condannando l’impresa a un risarcimento pari a 22mila euro – l’equivalente di dodici mensilità – per il recesso ritenuto illegittimo. Secondo i giudici di secondo grado, prima del licenziamento si sarebbero dovute valutare sanzioni più graduali.

Una lettura che la Cassazione ha ritenuto errata su più fronti. Due, in particolare, i profili evidenziati nella sentenza: da un lato, il fatto che la Corte d’Appello non avrebbe correttamente valutato l’incidenza delle molestie sulle dinamiche lavorative, né il fatto che queste si siano verificate alla presenza di altri colleghi; dall’altro, l’errore di prospettiva nel ridurre la vicenda a un semplice tema disciplinare. I supremi giudici sottolineano infatti che tale impostazione “non è conforme ai valori presenti e ormai radicati nella realtà sociale e ai principi dell’ordinamento”.

La Suprema Corte richiama anche il codice di condotta interno adottato dall’azienda, che ribadisce il principio di un ambiente di lavoro rispettoso e privo di comportamenti inappropriati, comprese le discriminazioni sessuali. In questo contesto, il comportamento della lavoratrice – secondo la Cassazione – giustifica pienamente il licenziamento.

I giudici di legittimità hanno quindi rimandato il fascicolo alla Corte d’Appello per un nuovo esame, “alla luce della corretta scala valoriale di riferimento”.

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