09 Novembre 2023
Se uno come me, che il calcio da anni non lo segue se non come raro, puro intrattenimento occasionale, si imbatte in un derby si accorge con sorpresa che i giocatori italiani in campo sono al massimo cinque o sei su ventidue e della trentina disponibile non più di sette otto; quelli nati e cresciuti sotto la Madonnina non più pervenuti (vanno a loro volta a giocare in Inghilterra o dagli arabi). Non c’è rimpianto o denuncia, solo constatazione. Se poi questi talenti magrebini o subsahariani o balcanici siano davvero fenomeni strappati alle madrepatria oppure semplici pretesti per i noti intrallazzi pallonari, rinuncio a chiedermelo così come non mi chiedo in cosa il Milan e l’Inter dovrebbero, potrebbero ancora rappresentare la città. Difatti nell’infernare rutilare di divise telegeniche, senza i colori originali, del carosello di campioni che vanno e vengono, come le nuvole di De André, nei bagliori e fumi spaziali degli stadi, irriconoscibile anche il San Siro che vogliono buttare via, hanno tutta l’aria di averci rinunciato o meglio di non porsi più il problema. Allora cosa è una squadra di calcio, fuori dall’intrapresa miliardaria, ma di regola in perdita, tra sport e immagine, tra affari e affari, di solito gestita da sultani arabi, finanzieri cinesi, satrapi russi o misteriosi fondi americani? Per l’appunto una industria a tutto tondo, una multinazionale dove, ben che vada, l’amalgama dei componenti in campo e fuori porta risultati che si misurano in centinaia di milioni. Dell’afflato identitario se ne fottono. E tuttavia, loro malgrado una qualche forza rappresentativa, come una coda, una scia, queste squadre ibride, frigide, senza radici e senza prospettive, queste società del qui ed ora, i cui protagonisti a 20 anni sono milionari e si sputtanano cifre soldi scommettendo su loro stessi, un potere di identificazione lo conservano, un vettore di riconoscimento lo sviluppano: con tutto ciò che ne consegue. A Milano, per la sfida del Milan col Paris Saint Germain, si è visto nella luce più sinistra e la conseguenza si è risolta nell’ennesima disfatta per la città, nell’indifferenza grottesca di chi la amministra.
Perché quella divampata lungo la corsia dei Navigli, anche se l’informazione conformista lo tace o lo relega nei trafiletti che nessuno legge, è stata una guerra di giovani nordafricani. Quelli del PSG, appartenente all’emiro qatarino Nasser Al Khelaifi, presidente del fondo monetario, in rapporti di amicizia padronale col presidente francese Macron, erano teppaglia ultrà di origini nordafricane, gli stessi che attualmente scatenano a Parigi e non solo la caccia all’ebreo, vedi caso agevolati dall’ordine dell’Eliseo di contenere ma non reprimere; e sono stati affrontati a Milano principalmente da altri di identica matrice, in una disfida territoriale tra simili. Anche qui i maranza, gli aspiranti trapper, i balordi coi piumini e le sneaker griffate, tutto uno sferragliare di catene, di spranghe, di lame di coltello nella Darsena sconvolta, i negozianti terrificati anche perché la polizia è giunta sul posto in ritardo e, qui come a Paris, con compiti di mero assorbimento: arginare ma non reagire, non sia mai che poi questi ragazzini criminali, che tengono in ostaggio Milano, se n’abbiano a male!
Sindaco indifferente, quasi estraneo, ma Milano ha patito l’ennesima disfatta, questa volta partendo da un pretesto sportivo. Sala e la sua giunta continuano ad avere responsabilità pesantissime al punto che non si capisce più se tanta leggerezza sia figlia dell’incompetenza o di una sostanziale accondiscendenza. Si arrivava al fantastico con il potente storico assessore alle politiche sociali Majorino, quello più coinvolto nelle questioni legate dall’immigrazione, intento a polemizzare con la Meloni sull’accordo con l’Albania per smistare i clandestini. Per il PD milanese e nazionale gli irregolari non si respingono, non si contengono, vanno lasciati liberi di sbarcare e di infierire se è il caso, comunque di fare il loro comodo fino ad estreme conseguenze. Poi, proclamare come fa l’ineffabile Sala, che “la situazione è innegabilmente seria e lo sappiamo è un attimo”. Se lo sapete, perché non fate niente?
Perché a questo punto il non volere è degradato nel non potere, perché il vaso di Pandora di una immigrazione scatenata, di una integrazione mai e poi mai maturata, non lo richiude più nessuno e a capirlo basta una partita di calcio, tra squadre dall’eredità sociale forte ma di proprietà lontane e impersonali, di giocatori mercenari e del tutto indifferenti alla storia cittadina, al blasone. Bravissimi, ottimi i Leao e i Mbappè, ma che ne sanno di Milano e di Peppin Meazza, di Rivera e Mazzola, che di Parigi e di quando il divo parigino Jean-Paul Belmondo si accollava la proprietà del PSG a capo di un sodalizio industriale per amor di patria, di tradizione sportiva e cittadina? Anche la popstar Elton John aveva fatto qualcosa di simile col Watford. Tempi vicini che suonano remoti, oggi le squadre non hanno anima, non hanno identità e i suoi tifosi non hanno consapevolezza, non possono rispecchiarsi in un retaggio ma scendono lungo la Darsena a sbudellarsi.
Sono tifosi? Sono figli del Milan, dell’Inter, della città e dei derby, di un sentimento confuso ma indiscutibile, istintivo, che li portava a sentirsi come parte della grande Babele, una metropoli che era quella che era anche grazie a loro, numeri fin che si vuole, mattoni fin che si vuole, ma mattoni di un muro vivo, pulsante, ostile e rassicurante, comunque imprescindibile? Diremmo di no, l’osmosi tra il tifoso-nessuno e il divo calciatore, tra la società degli anonimi e la società sportiva, tra il cittadino polvere e la città immensa è completamente saltato come è saltata la Babele, come è annientata la città che sgomenta si vede aggredire da orde sconosciute, non solo calate da fuori, anche salite dalle sue stesse viscere. Ha detto un negoziante dei Navigli a un giornalista: “Ho visto di tutto, sopportato di tutto, mi tartassano, mi riempiono di burocrazia, di vincoli, di obblighi, impediscono le auto e perdo clienti, mi proibiscono di girare per lavoro, il Comune non esiste, la delinquenza feroce sì, ho sopportato fino adesso ma anche le guerre tra maranza davanti alla vetrina per una partita di pallone mentre inneggiano ad Hamas no, è troppo, chiudo e non apro più”. Ieri in metropolitana una pattuglia di agenti ha intercettato un terrorista algerino. “Documenti, prego” e quello si è messo ad urlacchiare “Allah Akhbar” e ha cercato di sbudellarli con un coltellaccio. Una scena quasi comica, fantozziana ma qui nessuno ha voglia di ridere, qui uno ha sempre più la sensazione di essere un bersaglio mobile, casuale, vive da braccato e lo prendono anche per il culo.
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