31 Gennaio 2025
Claudio Descalzi, Amministratore Delegato di Eni, in occasione dell'evento "La Ripartenza" di Nicola Porro ha dichiarato:
"Trump sta esprimendo le sue opinioni, ma non è possibile aumentare la produzione, cambiare le dinamiche o adottare nuove misure, soprattutto nel settore energetico, senza investimenti di preparazione, normative adeguate e politiche appropriate. Rispondendo alla domanda: può cambiare qualcosa? Il sentimento generale era già mutato prima dell’arrivo di Trump. Per quanto riguarda la mia esperienza nell’ultimo anno e mezzo, viaggiando in tutto il mondo per confrontarmi con gli investitori – dato che siamo un’azienda quotata – ho notato un cambiamento. Fino a due-tre anni fa, le principali richieste riguardavano gli investimenti esteri, non solo per la riduzione delle emissioni, ma anche per lo sviluppo di energie rinnovabili. Tuttavia, nell’ultimo anno e mezzo, queste domande non vengono più poste. Gli analisti e gli investitori hanno già adottato un orientamento diverso. Per anni, si è assistito a un’egemonia ideologica e culturale incentrata esclusivamente sulle rinnovabili, con il 30% degli investimenti destinato a questo settore, parliamo di miliardi di dollari. Non si tratta solo di decarbonizzazione teorica, ma di investimenti concreti, con l’obiettivo di ottenere ritorni economici senza incentivi o sussidi, perché, essendo un’azienda che produce ancora petrolio in casa, non rientriamo tra i beneficiari di incentivi. Trump potrà avere un impatto sugli Stati Uniti? Anche sotto Biden, la produzione americana è aumentata: oggi gli USA producono circa 16 milioni di barili di petrolio al giorno, restando di gran lunga il primo produttore mondiale, anche rispetto alla Russia, che in passato ne produceva 10-11 milioni e ora molto meno. Gli Stati Uniti potrebbero accelerare ulteriormente la produzione? Ritengo sia piuttosto difficile. Non possono compensare da soli la riduzione di 20-30 milioni di barili della Russia, i 2,5-3 milioni di barili tagliati dall’OPEC o la diminuzione del 30-40% degli investimenti nel settore petrolifero globale a causa delle restrizioni. Inoltre, abbassare il prezzo del petrolio, come sostiene Trump, non sarebbe semplice: se il prezzo scendesse troppo, la produzione americana stessa diventerebbe insostenibile. Infatti, il petrolio prodotto da piccoli operatori negli USA ha un punto di pareggio tra i 60 e i 65 dollari al barile; al di sotto di questa soglia, la produzione non sarebbe più economicamente vantaggiosa. In sostanza, Trump promuove un’idea di diversificazione energetica, includendo anche le rinnovabili, ma dubito che questo possa determinare un cambiamento radicale. La domanda globale è ancora dominata per l’80% dai combustibili fossili, con una grande quota di carbone: l’elettricità a livello mondiale proviene per il 37% dal carbone e per il 23% dal gas. I Paesi con alti consumi energetici e forte crescita demografica – come India, Cina e persino gli Stati Uniti – dipendono ancora pesantemente dal carbone. Anche in Europa, la Germania, nonostante le sue grandi capacità eoliche nel Mare del Nord, utilizza il carbone quando il vento non soffia. La lignite, tra l’altro, è uno dei carburanti più inquinanti in termini di emissioni. La Cina, dal canto suo, utilizza ancora il carbone per il 65% della sua produzione energetica, e ciò è responsabile del 90% delle sue emissioni. Il mondo è consapevole di questa realtà, ma l’Europa sembra non esserlo completamente. Negli ultimi cinque anni, ha tentato di modificare esclusivamente l’offerta energetica – puntando su idrogeno verde, rinnovabili ed elettrificazione – senza considerare che non si può cambiare l’offerta senza tenere conto della domanda, che rimane ancora rigida. Anche in Europa, sebbene la quota di combustibili fossili sia inferiore rispetto alla media globale (68% invece di 80%), gas e petrolio continuano a dominare la mobilità e il riscaldamento. Cercare di modificare solo l’offerta, senza affrontare la questione della domanda, ha un impatto devastante sull’industria, generando disoccupazione e povertà. Inoltre, l’Europa ha pochi margini fiscali: ha già speso moltissimo e continua a farlo. Oggi, gli oneri sociali sulla bolletta elettrica hanno raggiunto il 28%, a causa degli incentivi non solo sulle rinnovabili, ma anche su altre misure. Passando dagli Stati Uniti all’Europa, il problema non è il Green Deal in sé, ma il rallentamento economico europeo iniziato nel 2008. La quota dell’Europa sul PIL mondiale è rimasta stagnante, mentre altri Paesi sono cresciuti. Nel 2000, l’Europa rappresentava il 19% del PIL globale, mentre la Cina solo il 2%. Oggi la Cina si avvicina al 20%, mentre l’Europa è scesa al 15-16%. Ciò significa che un grande mercato si sta restringendo, non solo nel settore energetico, ma in generale. L’Europa cerca di trasformare l’offerta energetica, ma consuma ancora secondo la domanda tradizionale. Questo divario porta inevitabilmente alla povertà. Trump potrebbe cambiare questa situazione? Difficilmente."
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