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Benetton (Edizione): “60 candeline una tappa, con tre figli ora sono più paziente; Ponte Morandi? Profondo dolore, rinnovo le scuse”

Il Presidente della holding Edizione: "Sono stato sempre troppo orientato verso il futuro; crescendo ho imparato a non perdere di vista la bellezza del momento"

03 Marzo 2024

Benetton (Edizione): “60 candeline una tappa, con tre figli ora sono più paziente; Ponte Morandi? Profondo dolore, rinnovo le scuse”

Fonte: WIkipedia

Alessandro Benetton la butta lì - una frase fra tante - in una conversazione lunghissima. Dice: "Ognuno di noi è quello che fa quando gli capitano le cose che non si aspetta". Alessandro Benetton ha il talento delle frasi perfette, perché a lui, negli ultimi anni, di cose inaspettate ne sono capitate almeno due di vasta portata.
La prima: è diventato presidente della cassaforte di famiglia, lui che per anni si era considerato "all'opposizione". Ed
Edizione non è solo una bazzecola arrivata al valore patrimoniale netto di 13 miliardi di euro, con partecipazioni nei settori delle infrastrutture di trasporti e digitali, nel travel retail e food & beverage, nell'immobiliare, nel settore agricolo, in Mediobanca, in Generali e naturalmente nell'abbigliamento, ma era anche nel mezzo della crisi reputazionale seguita alla tragedia del
Ponte Morandi.

La seconda cosa inaspettata sono i tre figli adolescenti che decidono di vivere con lui quando finisce il suo matrimonio. Se gli chiedi il bilancio nel giorno di un compleanno così significativo, risponde:
"Più che in termini di traguardi, mi piace pensare che si tratti di una tappa. Sono stato sempre troppo orientato verso il futuro per guardare troppo al passato e, crescendo, ho imparato a non perdere di vista neanche la bellezza di quello che vivo nel frattempo".

A 28 anni, dopo una laurea a Boston, un master a Harvard, un'esperienza in Goldman Sachs, Alessandro era stato il primo a portare in Italia il private equity, fondando la 21 Invest che ha, a oggi, 22 società in portafoglio e un fatturato aggregato da quasi due miliardi di euro ("un impresa", sintetizza lui, "che mi ha dato credibilità e che mi fatto anche conquistare la libertà di dissentire nell'azienda di famiglia"). Dalla Benetton fondata dal papà Luciano, si era per lo più tenuto alla larga, fatte salve un paio di incursioni finite anzitempo (lui: "Diciamo che quando avevo la sensazione che ci fossero troppe mani sul volante, sono tornato a fare il mio lavoro"). Quando aveva 24 anni, ha presieduto la Benetton Formula vincendo con Michael Schumacher, Nelson Piquet, Jean Alesi, collezionando due trionfi nel mondiale piloti, uno in quello costruttori e aprendo piste nuove per la famiglia e quello "era l'ingresso di un'azienda che faceva le maglie in un settore tecnologico, meccanico, fatto di millesimi di secondo e che ha contribuito a darci credibilità per fare poi tante altre diversificazioni".

A capo della holding di famiglia è arrivato a quasi 60 anni. Meglio tardi che mai?
"Qualcuno ha detto che ci vogliono trent'anni per avere successo in una notte.
Scherzo... Diventare presidente di Edizione era un obiettivo che non mi ero posto.
Assieme all'orgoglio di far parte di una famiglia importante, ho sempre vissuto l'esigenza di avere una strada indipendente e di stabilire la mia identità in maniera libera. E ho sempre separato i rapporti umani e di relazione coi miei familiari, che sono sempre stati ottimi, dai miei punti di vista sulle attività aziendali che sono stati spesso dissenzienti. Poi, in un momento critico, le cose che avevo detto e pensato sono state ritenute corrette anche dagli altri azionisti e mi sono ritrovato nel posto in cui mai avevo cercato di essere".

Nell' autobiografia La Traiettoria, uscita per Mondadori nel 2022, racconta di quando era vicepresidente di Benetton Group e suo padre viene a trovarla, ascolta i suoi progetti, ma alla fine, in azienda, resta tutto com'è.
"Mio padre è stato un grande innovatore, con i suoi fratelli ha creato una grandissima storia imprenditoriale. Ma l'azienda poi diventa molto brava a replicare se stessa.
Quel passaggio del libro mostra il mio stato d'animo quando realizzi che il nemico del successo è il successo: è comprensibile confondere la tradizione con l'abitudine. lo già allora, parlo di vent'anni fa, avevo superato lo scalino più difficile di chi nasce privilegiato: quello di sentirmi sufficientemente qualificato per avere voce in capitolo e dicevo che un'azienda è come il corpo umano: se smette di fare cellule nuove, muore".

Che ricorda del giorno del crollo del Ponte Morandi?
"Sono sempre stato fuori dall'attività di famiglia a parte la parentesi in Benetton abbigliamento. Quel giorno, ero in California a fare surf con mio figlio. Esco dall'acqua, apro i social e, senza sapere cos'era successo, trovo messaggi con tanti like che dicevano cose come: spero che tuo figlio se lo mangino gli squali".

La sua prima reazione?
"Oltre all'immenso dolore umano per la perdita di tante vite e per tante famiglie rimaste senza casa, quella di consigliare di chiedere immediatamente scusa".

Invece non arrivarono né le scuse dell'azienda né della famiglia.
"In questi casi, subentrano cattivi consigli degli avvocati e delle agenzie di comunicazione. lo, a titolo personale, le scuse le ho fatte e le rinnovo. Su Atlantia, che controllava Autostrade, non posso dire nulla perché Edizione deteneva solo il 30 per cento e nel Cda sedeva un solo Benetton, mio zio Gilberto. In Edizione, da tempo, Gilberto, in buonissima fede, aveva delegato tutto ai manager: aveva l'idea di una famiglia che si teneva fuori dalla gestione, forse anche per evitare conflitti nel passaggio generazionale. Ma di solito, una delega simile avviene dopo che è stata costruita un'adeguata cultura aziendale, altrimenti, il rischio è l'autoreferenzialità e il management si sente titolato a prendere decisioni come se fosse la proprietà".

È la tragedia del Morandi che la induce a prendere le redini della situazione?
"Alla fine sì o forse è stato un fattore di accelerazione. lo ho vissuto da osservatore terzo quella tragedia che non potrà essere mai cancellata nè dimenticata. Capisco l'obiezione di chi può dirmi "ma come? Eri un Benetton". Però, sono sempre stato quello che guardava le vetrine e vedeva com'erano piegate le maglie, non che ci fosse scritto sopra il mio nome. Questo sguardo terzo mi aveva portato più volte a far notare che delegare così tanto era una strada presa troppo in fretta. La tragedia ha reso palese quello che pensavo. Nello stesso anno sono scomparsi due dei miei zii fondatori, Carlo e Gilberto, e ai miei occhi era chiaro che non si potesse continuare su quella strada. A quel punto, confrontandoci in famiglia, ho scoperto che anche gli altri cugini la pensavano allo stesso modo. E insieme abbiamo deciso di tornare ai valori dei padri fondatori".

Quanto ci ha pensato prima di accettare la leadership?
"Ho accettato perché penso che ognuno debba prendersi le proprie responsabilità.
Detto questo, ho sempre creduto che il confronto e condividere le decisioni tra soci è un processo che crea valore".

In un intercettazione che non ha giovato all'immagine della sua famiglia, si legge che l'Ad Giovanni Castellucci avrebbe detto «i Benetton volevano solo dividendi, dividendi, dividendi. Che ha pensato leggendola?
"Non posso parlare di un procedimento in corso, ma soprattutto non posso parlare perché non c'ero. Però posso dire che il mio pensiero emergeva forte e chiaro dalle mie intercettazioni di quei giorni. E posso dire che in famiglia ci hanno cresciuto con valori opposti: mio padre è stato il primo imprenditore italiano a mettere in fabbrica l'aria condizionata per gli operai; da sempre, sosteniamo l'arte, la bellezza, lo sport, i giovani e il nostro territorio. Da studente di economia ad Harvard, ho fatto mie le lezioni del professor Michael Porter sulla teoria del valore condiviso: per me, un impresa funziona se, oltre ai profitti, fa cose per la comunità".

Il passaggio generazionale sta risultando devastante per altri grandi famiglie come gli Agnelli o i Del Vecchio, come avete fatto voi a fare a non tirarvi i coltelli?

"Il galateo mi suggerisce di non parlare degli altri. Da tecnico che ha seguito molti passaggi generazionali, soprattutto nella piccola e media impresa, credo che il segreto stia nell'usare strumenti giusti per separare l'eredità economica e la responsabilità che ti dà l'essere influente
sulla vita di tante persone".

Come immagina il futuro di Edizione?
"In questi tre anni, Edizione è cresciuta, ma in discontinuità con il passato. A New York, a dicembre, ha vinto il Global Advocate of the year, che premia l'impegno nella sostenibilità: azzereremo le nostre emissioni entro il 2040, dieci anni prima del termine indicato dall'Europa. Intanto, Aeroporti di Roma è diventato un fiore all'occhiello grazie agli investimenti fatti, anche creando un hub dedicato alle startup di servizi aereoportuali più innovative. L'ex Atlantia, oggi Mundys, azienda con cuore e testa italiani, non gestisce più le autostrade del nostro paese, ma grazie al rapporto con Florentino Peres, nostro socio in Abertis, è leader nel campo delle infrastrutture a livello mondiale".

A quel premio a New York, c'era Sharon Stone, che ha appena detto di essere in cerca di un amore, vi siete conosciuti?
"È una donna straordinaria... Ma erano i miei figli che ho cercato con gli occhi prima di prendere la parola dal podio".

Com'è stato occuparsi di loro quando si è separato?
"Siamo stati tutti insieme durante il Covid e io dico sempre che ognuno di noi è quello che fa quando gli capitano le cose che non si aspetta: io mi sono trovato a occuparmi dei loro amori adolescenziali, dei dottori, del test d'ammissione alle scuole o delle loro prime esperienze lavorative. Questo mi ha insegnato a rispettare ancora di più le donne che lavorano e crescono i figli e mi ha migliorato: per esempio, sono diventato più paziente. Ora, i ragazzi sono negli Stati Uniti, anche se, a rotazione, li ho sempre a casa e, nella routine quotidiana, passo mezz'ora al telefono con loro. La cosa più importante per me è che siano felici e, oggi, li vedo sereni. Mi cercano, vogliono stare con me, fare le vacanze con me. Se c'è un'unità di misura per il rapporto tra padre e figli, questa mi piace molto".

Lei che rapporto ha con suo padre?
"Siamo due personalità forti, quindi, c'è voluto tempo per costruire il nostro rapporto, fatto di stima e di grande affetto.
Oggi, la relazione fra genitori e figli è molto più orizzontale che verticale. Prima, l'autorevolezza del genitore veniva anche dall'autorità".

E la sua educazione quanto è stata verticale? Nella sua autobiografia vediamo volare anche un ceffone.
"Ne ho raccontato uno ricevuto da mia madre perché a scuola avevo chiesto la merenda ai compagni, facendo fare brutta figura alla famiglia. L'educazione verticale è: io genitore ho da fare, il tuo dovere è questo e ti devi arrangiare. È meno affettiva rispetto a oggi e meno presente nella crescita, ma ora che il mondo è più complesso, serve un livello di dedizione più alto da parte dei genitori, un dialogo in cui devi dedicare tempo a spiegare, convincere".

E come è stato educato a riconoscere i suoi privilegi?
"Attraverso il ceffone, attraverso la paghetta che non c'era e cose simili. D'estate, mio padre mi mandava a lavorare.
Diceva che le vacanze erano troppo lunghe e annoiarsi faceva male".

Primo lavoro?
"Eravamo io e mio fratello, 13 anni lui, 12 io, credo. Mio padre ci ha fatto pulire le caldaie dell'azienda e poi ci ha spediti a fare i caddy nei campi da golf: 500 lire per ogni giro del campo e 50 di mancia se lucidavi le scarpe. A fine estate, avevamo guadagnato 15mila lire a testa e papà dice: festeggiamo, compriamo le scarpe da trekking. Poi, arriva alla cassa, incrocia le braccia e fa: avete i soldi, pagate voi. E così abbiamo speso fino all'ultimo centesimo".

Lei è riuscito a fare qualcosa di simile coi suoi figli?
"Gli intenti sono rimasti uguali, le modalità sono diverse. Educo di più con l'esempio e il dialogo".

Che cosa fanno oggi i ragazzi?
"Agnese, al momento, lavora nel mondo dell'arte a New York e ha lavorato nella moda, ma immagino che farà anche altre esperienze. Tobias studia matematica applicata all'economia e arabo. Luce fa studi classici, ma l'ha appassionata un'esperienza di volontariato in India".

Lei è un padre affettuoso?
"A casa nostra, non mancano baci e abbracci. E quando guardiamo un film romantico, chi si commuove di più siamo io e Tobias, i due uomini di casa".

Nella sua storia, c'è un momento in cui lei e suo padre vi guardate negli occhi e vi dite qualcosa che segna una tappa importante del vostro rapporto?
"Non mi viene in mente, perché questa modalità non fa parte del suo modo di essere. Mio padre appartiene a un'altra generazione, la camera di compensazione affettiva è mamma, più avvolgente, ma mio padre è molto soddisfatto di come vanno le cose. Il suo bello è che non ha perso la progettualità. Mi ricorda Harry Kissinger, andavo a trovarlo spesso a New York, aveva cento anni guardava al futuro come se avesse davanti tutta la vita. Mi piace pensare che anch'io invecchierò allo stesso modo".

È per questo che, sui social, parla tanto ai giovani, proponendo i "caffè con Alessandro": video ispirazionali con titoli come "l'imprenditore non è uno squalo"!
"Mi piace pensare ai ragazzi, infatti, l'anno scorso, è nata 2100 Venture, una nuova iniziativa dedicata alle start up e, a Milano, è stato appena inaugurato l'hotel sui
Navigli del nostro progetto House of Stories, che unisce hotel di design, ambiente di coworking e spazio per eventi pensato a misura di giovani".

A Treviso, con l'archistar David Chipperfield, ha appena restaurato il cinquecentesco Palazzo Ancilotto, sede di 21 Invest. Che cos'è per lei la bellezza?
"Nell'arte, è far rivivere il passato nel presente. La bellezza è contagiosa. Più che proprietari, siamo custodi della bellezza:
Palazzo Ancilotto è stato un investimento folle se pensi di doverlo ammortizzare in un breve periodo, ma se ragioni con una prospettiva a lungo termine, allora, la bellezza diventa 'economica'".

Pescando nella memoria, che momenti indimenticabili rivede?
"L'infanzia a Treviso, quando con mio fratello Mauro rubavamo i motorini degli operai posteggiati per fare i giri nel parcheggio, finché ci beccarono e finimmo in punizione; o quando mancava il primo premio per una gara di bici e presi una scultura in casa, ma scoprendo che era preziosa, mi scapicollai per vincere e riportarla in salotto prima che rientrassero i miei. Ricordo, poi, la nascita dei miei figli, ogni volta con la sensazione di essere diventato un uomo più completo. E ricordo l'abbraccio con Schumacher quando conquista con noi, in Australia, nel 1994, il suo primo mondiale piloti".

Da ragazzo, ha avuto fama di rubacuori. Tra le sue ex, Carolyn Besset prima che sposasse John Kennedy Jr. Che ricorda di lei, a 25 anni dalla sua scomparsa?
"È un amore che risale agli anni di Harvard, un periodo bellissimo della mia vita. Di Carolyn mi piaceva il suo essere originale, determinata. Non era il tipo di persona a cui potevi dire come doveva vivere. Gli amori giovanili hanno la caratteristica di restare indelebili forse anche perché non li hai poi vissuti, ma per noi due, il timing non era quello giusto".

E oggi l'amore? Lo ha messo in stand by?
"Ho tante ragioni per essere ottimista".

Fonte: Il Corriere Della Sera

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