04 Novembre 2025
UNIONE EUROPEA (fonte: pixabay)
Ci sono decisioni che nascono da un moto di giustizia e finiscono per diventare esercizi di autolesionismo politico.
Da tre anni, l’Unione Europea vive immersa in questa contraddizione: punire i regimi che sfidano il diritto internazionale, e insieme pagare, economicamente e strategicamente, il prezzo più alto di una guerra economica che non riesce mai a vincere. Le sanzioni, nate come strumento di pressione etica e deterrente, si stanno rivelando un’arma spuntata, che colpisce l’economia del Vecchio Continente più di quanto scalfisca quella dei suoi avversari.
Partiamo da un punto. Le catene del valore globale sono oggi la trama invisibile che sostiene l’economia mondiale. Dal microchip taiwanese all’automobile tedesca, ogni prodotto attraversa più confini, valute e sistemi giuridici prima di nascere.
In questo scenario, l’idea stessa di una sanzione “mirata” è un ossimoro. Colpire un anello della catena significa incrinare l’intero circuito produttivo. L’Europa, che della globalizzazione è uno dei grandi architetti, ne è anche la principale vittima quando decide di chiudere porte che aveva spalancato trent’anni fa.
Durante la pandemia di Covid-19 abbiamo toccato con mano cosa significa interrompere la catena logistica: scaffali vuoti, componenti introvabili, inflazione a doppia cifra. Oggi, replicare quel cortocircuito non è solo rischioso, è semplicemente miope
Le sanzioni “intelligenti” restano un mito burocratico. Nella realtà, ogni embargo genera onde d’urto che tornano indietro come un’eco economica, colpendo proprio chi l’ha innescata.
Nessuno discute che l’UE debba difendere i propri valori e reagire alle violazioni internazionali. Ma quanto conosciamo davvero gli effetti delle sue scelte?
Gli studi di impatto a medio e lungo termine sulle sanzioni europee o non sono pubblici, o semplicemente non esistono. Le decisioni vengono prese in una nebbia informativa, dove le conseguenze restano ipotesi, e il dibattito democratico si riduce a un rituale di approvazione politica.
È la tecnocrazia che sostituisce la valutazione empirica.
Nel frattempo, i cittadini e le imprese europee pagano il prezzo. I settori industriali ad alta intensità energetica, dalla chimica al vetro, dall’acciaio all’automotive, subiscono costi crescenti, mentre le economie emergenti che non applicano sanzioni intercettano quote di mercato e capitali.
E poi, non possiamo non dire che nel grande gioco commerciale tra Washington e Pechino, l’Europa rischia di fare da comparsa involontaria.
La guerra dei dazi inaugurata da Trump e proseguita sotto Biden ha sconvolto gli equilibri globali del commercio, ma mentre Stati Uniti e Cina giocano da superpotenze autonome, Bruxelles recita il ruolo di “alleato leale”, anche quando le conseguenze ricadono tutte sul mercato europeo. L’Europa non è un’economia chiusa e autarchica: la sua forza risiede proprio nella porosità dei suoi scambi. Ogni barriera, ogni dazio, è una scheggia nel meccanismo che l’ha resa prospera.
Il paradosso più grande è che le sanzioni europee, soprattutto quando rivolte verso la Cina, finiscono per essere più dolorose per chi le emette che per chi le riceve.
Un appunto va fatto agli osservatori, i quali spesso sottostimano la portata di tale ragionamento: è proprio il modello a doppia circolazione dell’economia cinese, un mercato interno gigantesco e un sistema export resiliente, a proteggere Pechino da molti shock esterni.
L’Europa, al contrario, ha costruito la propria ricchezza sull’apertura e sulla dipendenza. Basti vedere le performance del settore automotive per trarre qualche conclusione a tal proposito.
Ogni sanzione imposta a un paese spinge automaticamente quel paese verso un altro. È il meccanismo elementare della geopolitica moderna.
Colpire Russia, Cina, Iran, o altri attori connessi da interessi convergenti significa accelerare la formazione di nuovi poli economici.
Il BRICS allargato, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai e le alleanze energetiche asiatiche stanno creando un ecosistema alternativo, impermeabile alla leva sanzionatoria occidentale.
In un mondo di blocchi multipli, la potenza delle sanzioni diminuisce in proporzione diretta alla loro frequenza. E l’Europa, pur di riaffermare un principio, rischia di trovarsi isolata nella pratica.
Pochi dossier rivelano la contraddizione europea meglio del capitolo energetico.
Disconnettersi dal gas russo è stato presentato come un atto di indipendenza morale, ma resta in larga misura un’illusione statistica. Molti Stati membri continuano ad acquistare energia russa attraverso intermediari, mentre le importazioni di LNG americano, acclamate come alternativa “liberatrice”, hanno quadruplicato i costi.
Il diciannovesimo pacchetto di sanzioni, approvato nell’ottobre 2025, include per la prima volta un divieto progressivo sulle importazioni di gas naturale liquefatto russo. Ma i dati dicono che nel solo 2025 la Russia ha esportato quasi 19 milioni di tonnellate di LNG, di cui la metà dirette proprio verso l’Europa.
Bloccare completamente questi flussi entro il 2027 significherebbe mettere a rischio la stabilità energetica del continente e spingere l’industria europea verso ulteriori delocalizzazioni.
La vera domanda, dunque, è se l’autonomia energetica europea sia un obiettivo o un miraggio.
Con il nuovo pacchetto di sanzioni, Bruxelles ha incluso anche alcune raffinerie cinesi, provocando la protesta immediata di Pechino. La risposta non si è fatta attendere: Pechino ha lasciato intendere contromisure mirate ai settori tecnologici e automobilistici europei, dove la dipendenza dall’export cinese resta fortissima.
Eppure, il conflitto economico con la Cina non è una strada che l’Europa può permettersi di percorrere a lungo.
Non solo perché la Cina è uno dei principali partner commerciali per oltre la metà degli Stati membri, ma perché la stessa idea di un “disaccoppiamento” tra le due economie, spesso evocata nei discorsi politici, è logisticamente impossibile.
Ogni nuova sanzione, ogni rialzo dei costi energetici, ogni incertezza sulle forniture globali erodono la base industriale del continente.
Le PMI, che costituiscono la spina dorsale dell’economia europea, soffrono per prime: costi logistici, rincari delle materie prime, burocrazia crescente.
La politica delle sanzioni è diventata per l’Europa una forma di catarsi: punire il male altrui per sentirsi dalla parte giusta della storia.
Ma la storia non si muove mai per principi, si muove per interessi.
Forse l’Europa dovrebbe ricordare che la moralità, senza potenza economica, è solo una forma nobile di impotenza.
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