08 Settembre 2025
Ihab Abu Jazar Fonte: Ig @ehab.abujazar
Ihab Abu Jazar, ct della squadra di calcio della Palestina, denuncia il perdurare del genocidio in corso nella Striscia di Gaza. L’allenatore ricorda come il suo vice, Hani Al-Masdar, è stato ucciso dai soldati delle Idf mentre consegnava aiuti umanitari. Inoltre, lancia un monito per Italia-Israele: “Issate bandiere palestinesi durante la partita e intonate cori per noi”.
Un Paese che non gioca in casa da oltre 6 anni, un commissario tecnico che guida la nazionale tra macerie e checkpoint, una squadra che si allena tra esilio e dolore. Ihab Abu Jazar, allenatore della Palestina, racconta cosa significa rappresentare un popolo sotto assedio: “Ho perso più di 250 persone tra amici, parenti e colleghi. L’Italia faccia un minuto di silenzio per i nostri bambini”.
In Palestina persino la normalità incute paura. “La cosa che temiamo di più è il telefono. Una volta rientrati negli spogliatoi facciamo fatica a controllare le notifiche. Quell’avviso, ormai quotidianità per milioni di persone, è diventato una fonte d’ansia: potrebbe dirci che è morto un amico o un familiare”.
Dal 3 dicembre 2024 Abu Jazar siede sulla panchina della nazionale, che non disputa una gara in casa dal 15 ottobre 2019, contro l’Arabia Saudita ad Al-Ram. Da allora, le sfide interne si giocano a Doha. “Ti senti vuoto, isolato, ti manca un pezzo che non sai quando ti verrà ridato. Io sono nato a Rafah, a sud della Striscia di Gaza. Oggi è una città che quasi non esiste più: è stata rasa al suolo”.
Il tecnico spiega la difficoltà di guidare una squadra in esilio: “Come c.t. alleni una squadra che non può giocare davanti ai tifosi, che non può riunire i giocatori in patria e che non può comunicare liberamente a causa di posti di blocco e restrizioni imposti dall’occupazione. Il ruolo trascende lo sport. Si tratta di raccontare al mondo il nostro calvario e trasformare il dolore in forza. Allenare la Palestina è una forma di resistenza”.
Il calcio, quindi, come atto di sopravvivenza: “Non mollando. Siamo la voce di un popolo. Portiamo speranza e traiamo forza dalla gente. Ogni segnale che inviamo attraverso il calcio fa parte di una lotta più grande: quella per la libertà”.
Il quadro sportivo nel Paese è desolante. “Da noi lo sport non esiste più. Paralizzato da morti, arresti, posti di blocco, macerie. Più di 280 infrastrutture sportive sono state danneggiate o rase al suolo. Alcuni impianti sono stati usati come centri di detenzione per interrogare i prigionieri. Il campionato è sospeso da tre anni e non ci sono competizioni giovanili. Il numero di morti legati allo sport è 774: tra questi ci sono giocatori, membri delle federazioni e così via”.
Il genocidio ha colpito anche i suoi collaboratori più vicini. “Io ho perso più di 250 persone tra parenti, colleghi e amici, ma sono ancora qui. Come i miei giocatori. Ma poche altre storie mi hanno segnato come la morte di Hani Al-Masdar, il mio vice. Era il mio braccio destro nella squadra olimpica. Un eroe. È stato ucciso mentre consegnava aiuti, viaggiando da nord a sud per sostenere i bisognosi. Suleiman Al-Obeid invece, il ‘Pelè della Palestina’, ex punta della nazionale, è morto mentre era in coda per il cibo, costretto dalla guerra a cercare da mangiare per sé e per i suoi figli”.
L’allenatore rivolge infine un appello all’Italia, che nelle qualificazioni affronterà Israele: “Agli italiani dico questo: osservate un minuto di silenzio prima del calcio d’inizio per onorare i bambini di Gaza e le nostre vittime. Issate la bandiera palestinese sugli spalti e intonate cori per noi come atto di solidarietà. E, infine, non dimenticatevi del passato: nel 1982 l’Italia dedicò il Mondiale al popolo palestinese. Ora serve un altro segnale forte”.
Non un invito al boicottaggio: “Non dico questo. Spero che questa partita possa ricordare che ogni giorno una nazione viene uccisa. E a ucciderla è chi gioca contro gli azzurri”.
Poi, lo sguardo torna ai suoi giocatori: “In rosa c’è chi ha perso la madre, il padre, il fratello. L’unica cosa che posso dirgli è non mollare. Di non far sì che i sacrifici e le sofferenze siano vane. Nonostante l'occupazione e i massacri, siamo un popolo che ama la vita. La Palestina ha una cultura di poeti, artisti, pensatori, atleti. Attraverso il calcio vogliamo dimostrare che l'immagine dipinta da Israele è falsa. Ogni partita è una prova di forza delle nostre radici, della nostra forza e del nostro diritto a vivere con dignità e sicurezza”.
E prima di scendere in campo, la frase che diventa rito: “Di resistere finché abbiamo fiato e polmoni”.
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