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"La libertà innanzi tutto e sopra tutto"
Benedetto Croce «Il Giornale d'Italia» (10 agosto 1943)

Dialogando con Jackie Eubanks, una ragazza del Michigan oggi tra le fila giovanili di Trump: "Con lui libertà di costruire, rischiare e fallire"

A 18 anni, durante il primo anno di università, Jackie assiste a un comizio di Donald Trump. È l’anno della sua prima candidatura

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Donald Trump e Jackie Eubanks

Ci troviamo a Villa Ciceri, a pochi passi dal Lago di Como. L’ho raggiunta seguendo le solite strade tortuose che si snodano tra queste colline lombarde, finché San Fermo della Battaglia non ha cominciato a scintillare contro l’aria bassa del crepuscolo.

Una dimora a tratti solenne, immersa forse nello stesso silenzio di un tempo, quando fu residenza estiva dei vescovi comaschi. Oggi appartiene ai Verga Ruffoni ed io sono tra gli invitati del suo proprietario, l’avvocato Alessandro. 

Tra arazzi perfettamente conservati e abiti papali esposti come reliquie, conserva le tracce di quel potere antico, una suggestione che mi catapulta immediatamente in un’altra dimensione. Non avrei potuto immaginare un luogo più adatto per questa conversazione.

Il mio obiettivo quella sera era una giovane donna americana, figura emergente del Partito Repubblicano, in Italia come ospite del mio amico Mariofilippo Brambilla di Carpiano per partecipare al discusso Remigration Summit e per essere intervistata da me.

Appena varcata la soglia della villa, sebbene le tentazioni estetiche fossero molte, l’ho individuata subito. Jackie Eubanks. Da quel momento, la nostra conversazione è cominciata.

Ci siamo sedute su un divano sontuoso, alle nostre spalle un dipinto severo ritraeva uno scrittore dal volto sfocato. C’era qualcosa di inquietante in quell’immagine, come se ci stesse spiando da dentro la tela.

Jackie — o meglio, Jacquelyn Eubanks — ha fatto molte cose in ventisei anni. Cresciuta nel Michigan, arrivò finalista con un romanzo scritto in adolescenza, in cui già rivelava idee precise: una critica alla società ipersessualizzata e una fascinazione per il sistema valoriale dell’America degli anni Cinquanta. Poi è arrivato il desiderio di dare concretezza alla sua vocazione, l’avvicinamento alla politica, il Partito Repubblicano, Trump.

Jackie ha occhi grandi, azzurro-verdi, e una bellezza semplice, da ragazza del Midwest: sincera, composta, addolcita da un sorriso gentile. Indossava una gonna verde e un maglioncino marrone; i capelli biondo cenere lasciati in onde morbide. Sembrava più una giovane insegnante americana degli anni Cinquanta che non una radicale ideologica, come certi media l’hanno dipinta.

Avevo letto qualcosa su di lei prima di incontrarla, ma ho smesso in fretta. Quando trovo una sola narrazione, la scarto. È una regola che mi sono data. Preferisco farmi un’idea mia, guardando le persone negli occhi. E gli occhi di Jackie non erano quelli di una sovversiva, né di un’ideologa fanatica: erano quelli di una donna convinta, sì, ma lucida, riflessiva e sorprendentemente disponibile al dialogo.

"Mio nonno ha combattuto nella Seconda guerra mondiale. E dalla parte di mio padre possiamo tracciare la discendenza fino alle colonie, alla Rivoluzione americana, alla Guerra civile".
Con questa frase, Jackie fa scivolare la conversazione su un piano che in Europa suona alieno, quasi mitologico. Per lei, la storia non è teoria ma genealogia.
"La mia prospettiva nasce da secoli di sangue versato per costruire la nazione in cui vivo E quando hai cominciato a sentire tutto questo come parte di una missione personale? le domando.

A 18 anni, durante il primo anno di università, Jackie assiste a un comizio di Donald Trump. È l’anno della sua prima candidatura. "Avevamo appena vissuto l’era Obama: la crisi dei mutui del 2008, le famiglie rovinate, le tasse alle stelle, e l’amnistia agli immigrati irregolari. Si premiava chi aveva infranto la legge. Quando ho sentito Trump, ho capito: lui ha le idee giuste".

Jackie non parla per slogan. È articolata, convinta, anche quando dice cose che sa essere scomode. Al che mi torna in mente una delle ultime dichiarazioni di Trump che, finalmente, ha ripristinato il Columbus Day.

Le mi dice: "Cristoforo Colombo va onorato come un eroe. Gli Stati Uniti non esisterebbero senza di lui. Oggi si vive in case con riscaldamento, acqua corrente, medicina moderna. Tutto questo viene da quel mondo che lui ha aperto".

Poi arriva l’affondo: "In America è controverso dirlo, ma le popolazioni indigene erano violente. Cannibalismo, sacrifici umani. L’Occidente ha portato la fine di quella barbarie. Dovremmo celebrare il fatto che oggi non si fanno più sacrifici umani nelle Americhe".

Jackie crede profondamente nella superiorità culturale dell’Occidente, ma anche nella necessità di difenderlo. Quando parla dell’Europa, distingue: "La sinistra americana la vede come un esempio di apertura, liberalismo, accoglienza. La destra invece la ammira per la bellezza delle sue culture e delle sue identità nazionali. Ma entrambe le parti riconoscono che l’Europa ha un’anima che va preservata. Gli Stati Uniti sono stati creati dagli europei. Non dai Maya, né dagli Aztechi. Siamo cugini. È stato lo spirito europeo a costruire l’America: quello che rischia tutto, va in un posto sconosciuto e fonda qualcosa di grande".

Mentre parla, ho la conferma che la mia intuizione iniziale fosse giusta: nei suoi occhi brilla una luce che di rado trovo nei miei interlocutori. Jackie non ha alcun timore a dire ciò che pensa, fosse pure davanti a una platea intera di oppositori. Lo fa con una franchezza quasi disarmante, come chi ha già messo in conto il prezzo della verità.

L’intervista viene per un attimo interrotta dall’irruzione gioiosa di un golden retriever, americano come lei, forse l’abitante più coccolato della casa Verga Ruffoni. Si avvicina, scodinzolando, e ad entrambe concede un momento di leggerezza e di risate. Ridiamo insieme — e in quel gesto spontaneo, realizzo che Jackie ed io siamo coetanee. Figlie di due mondi separati da un oceano, eppure con qualcosa che ci accomuna: quella serietà precoce che nasce dal sentirsi chiamate a una missione più grande della propria età.

Forse è questo che rende l’intervista così semplice. Non è una sfida, è un riconoscersi. Nella diversità, certo, ma anche nella volontà condivisa di affermare — e inseguire — un’idea tanto profonda quanto scomoda, di cui sentirsi portatrici.

Le porto allora una domanda che mi intriga da tempo. Una domanda da fare proprio a lei, che di sé dice “yankee sfegatata”.

Parliamo allora dell’identità americana. Come la definiresti?

"Libertà. Ma non una libertà astratta: libertà di costruire, di rischiare, di fallire. L’America è “you are the captain of your ship, the manifestor of your destiny.” Siamo nati per spingerci oltre l’oceano, oltre il continente, fino allo spazio. E per farlo non per ego, ma per dare 'the blessings of liberty to ourselves and our posterity'. È scritto nella Costituzione".

Ma il cuore dell’intervista, lo capisco presto, batte altrove. Non nella politica, né nella storia: batte nella spiritualità. È quando tocco quel tasto che Jackie cambia tono. Lo sguardo si fa più profondo, la voce rallenta, come se stesse dicendo qualcosa che non è solo opinione, ma tutta sé stessa.

"Sono una cattolica praticante, tradizionale. In America non è comune". La sua fede, mi racconta, viene da due radici: il padre, erede della storia americana; la madre, immigrata polacca e devotissima. "Credo che la Rivoluzione industriale e il progresso tecnologico abbiano portato l’uomo a pensare di poter superare Dio. E questo è un inganno luciferino".

Non lo dice per effetto. Lo dice come una diagnosi esatta.

Jackie è diventata virale — me lo dice con un mezzo sorriso — per aver affermato pubblicamente che la contraccezione dovrebbe essere illegale. "L’ho detto perché sono cattolica. È contro la legge naturale. E la legge naturale viene da Dio. Oggi la tecnologia ci dà l’illusione di poter sovvertire la natura. Ma questa è una guerra spirituale contro l’ordine morale divino".

Poi si ferma un attimo. Mi guarda dritta. "Lucifero voleva una libertà assoluta, al di là della legge di Dio. E ora l’umanità, in nome del progresso, sta facendo lo stesso".

La provoco. Jackie, io amo la mia cultura occidentale. Ma a volte mi colpisce la forza spirituale che vedo in altre religioni. Dimmi un po’, cosa ne pensi dell’islam?

Lei annuisce, quasi sorprendendomi.
"La devo riconoscere. La devo rispettare. Ho incontrato molti musulmani con una grande passione per la loro fede. Ed è una qualità. Ma, da cattolica, sono chiamata a predicare il Vangelo. E lo dico chiaramente: Gesù Cristo è il Messia. Cristo è Re. Non mi scuserò mai per questo".
Poi aggiunge, con una naturalezza disarmante:
"Tu pratichi la tua fede, io la mia. Ma in fondo... tu vuoi che io mi converta, e io voglio che tu ti converta. È inevitabile".

Non mi scandalizza. In realtà, capisco benissimo. Il vero contrasto non è tra fedi diverse, ma tra fede e assenza di fede.

A volte, infatti, mi sembra che non sia l’Islam il problema dell’Occidente. Ma qualcosa di più interno, più silenzioso. Ti faccio un esempio. Un amico musulmano mi ha augurato “Buon Natale”. Con sincerità. Un altro, occidentale, ha bofonchiato “Buone feste”. Quasi si scusasse.

Jackie non esita.
"Esattamente. Il vero nemico dell’Occidente oggi non è l’Islam. È il secolarismo. È la perdita della fede. La gente non si converte all’Islam: diventa atea, agnostica. Così stiamo erodendo le fondamenta della nostra civiltà. Filosofia greca, diritto romano, religione cristiana: se togli uno di questi pilastri, tutto crolla".

Se non credi in nulla, in fondo, non puoi nemmeno essere convertito. Ma allora: c’è una medicina?

"La preghiera. I sacramenti. Il ritorno alla Messa, alla confessione, al matrimonio. Più vocazioni religiose. Più famiglie unite, aperte alla vita. Serve una fede viva, vibrante. Lo Spirito Santo può incendiare i cuori, ma dobbiamo lasciarlo entrare. Se nascondiamo la fede sotto il secchio, il secolarismo vince. Dobbiamo mettere Cristo al centro. Onorare gli antenati. Lottare per il nostro popolo. Solo così costruiremo un futuro dove tutti potranno prosperare".

La guardo in silenzio. La domanda finale mi sorge spontanea, quasi inevitabile.

Quindi, per te, è la religione la chiave. Più della politica. Più dell’essere conservatori o progressisti.

"Sì. Assolutamente. La politica non può guarire l’anima. Finché le nostre anime non saranno allineate con il disegno di Dio sull’essere umano, vivremo nel caos e nella decadenza. E vedremo tutto crollare".

Dall’altra parte della sala, dove sono raccolti gli altri invitati della serata, iniziano a suonare le note inconfondibili de L’Amour Toujours di Gigi D’Agostino. Jackie la riconosce ancor prima di me, si volta con un sorriso improvviso, più leggero. "Shall we go there?" mi propone.

Le sorrido e annuisco. Con un’ultima occhiata, incontro lo sguardo sfocato dello scrittore nel dipinto che ci ha osservate per tutto il tempo, severo e muto. Mi viene da ridere, dentro di me. Quella dimora vescovile, così rigida, così sacra, ora vibra al ritmo di un’icona del clubbing anni Novanta.

Un segno gentile dei tempi che cambiano, nel bilico affascinante tra sacro e profano. Ed è proprio lì — sospeso in quella contraddizione — che forse vive ancora, testarda, la nostra civiltà.

Di Vanessa Combattelli



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