08 Luglio 2024
Melenchon, fonte: imagoeconomica
Dopo la vittoria al secondo turno dell'alleanza della sinistra in Francia, i riflettori si sono riaccesi sul leader più in vista dello schieramento, Jean-Luc Mélenchon. Da tempo bollato come "estremo", la gioia dell'establishment per la sconfitta del Rassemblement National viene temperata dal ruolo ora centrale di un politico definito come "arrabbiato" e "aggressivo", e certamente lontano dal cosiddetto centrismo di Emmanuel Macron.
Intanto è importante ricordare che i partiti definiti come estremi sono quelli che si concentrano sulle difficoltà economiche della popolazione: criticano le regole di bilancio europee e promettono maggiore spesa sociale in vari settori, come anche un aumento dei salari. I loro programmi sono considerati poco "responsabili" in quanto non rispetterebbero i limiti imposti dai trattati UE sul deficit. Peccato che alla popolazione questa idea di democrazia monetaria alla Bruxelles piaccia davvero poco.
Mélenchon, però, viene criticato anche per il suo presunto antisemitismo. È infatti decisamente fuori dal mainstream sulla questione di Israele. Si è rifiutato di partecipare a una grande manifestazione contro l'antisemitismo dopo gli attacchi del 7 ottobre e non definisce Hamas come un gruppo terroristico, ma piuttosto come una "organizzazione di resistenza". Si è scontrato con i gruppi pro-Israele in Francia, come il Crif, il "Consiglio rappresentativo degli ebrei in Francia", che difende le politiche di Tel Aviv, e sostiene il movimento "BDS", che da anni chiede boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele.
È sufficiente per definirlo antisemita? Ognuno di questi aspetti riguarda le politiche attuate da Israele nei confronti dei palestinesi, quindi come succede spesso, sembra un altro caso di equiparazione dell'ebraismo, una religione, con il sionismo, un'ideologia politica. A ragionare così – molto comune in questi anni, soprattutto dopo gli attacchi dell'anno scorso – tutti coloro che si pronunciano contro le politiche di Israele sarebbero automaticamente antisemiti.
Ci sono diversi modi di esprimere le critiche, ovviamente, e quindi attribuire a tutti gli ebrei, o a tutti gli israeliani, una colpa collettiva sarebbe sbagliato quanto accettare una visione simile dei musulmani. Come visto in questi mesi, c'è una componente significativa di ebrei sia dentro sia fuori Israele che non appoggia affatto la guerra condotta dal governo Netanyahu a Gaza. È importante distinguere appunto tra le azioni delle istituzioni di una nazione e l'identità dei suoi cittadini.
Quando si va alla caccia dell'antisemitismo, però, spesso questa regola viene ignorata. Lo si vede nelle critiche a Mélenchon in merito a un episodio di oltre 10 anni fa, di cui si legge sui giornali ancora oggi: aveva definito il Ministro delle Finanze francese Pierre Moscovici "uno di quei 17 bastardi dell'Eurogruppo", accusandolo di essere una persona "che pensa solo nel linguaggio della finanza internazionale".
Moscovici è di famiglia ebraica, e quindi automaticamente associarlo alla "finanza internazionale" ha portato ad accuse di antisemitismo. Mélenchon affermò di non sapere nemmeno la sua religione, ma senza fare un passo indietro sulla sostanza del suo commento. La paura di un rigurgito del razzismo della prima parte del 900 porta alla volontà di vietare ampie categorie di discorso politico, dalla critica alla finanza, appunto, finanche alla globalizzazione, parola che per qualche motivo viene associata a una visione complottistica, e quindi – secondo alcuni – automaticamente antisemita.
Può essere che nella sua visione personale Mélenchon abbia un'avversione pericolosa per gli ebrei, ma per stabilirlo servono prove più concrete. Non vale utilizzare lo spettro dell'antisemitismo per bloccare ogni critica alle politiche di Israele o alla finanza globalizzata.
di Andrew Spannaus
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