16 Dicembre 2025
Gaza Fonte: Jehad Alshrafi/AP
Le guerre moderne non sono solo battaglie di fuoco e acciaio, ma conflitti di definizione prima ancora che di confini. Ciò che viene detto precede ciò che viene fatto, e ciò che viene nominato viene legittimato prima di essere eseguito. In questo senso, il linguaggio non è un intermediario innocente che trasmette i fatti, bensì una struttura di potere a pieno titolo, che stabilisce chi è l’assassino, chi è la vittima, chi possiede il diritto di difendersi e chi viene condannato semplicemente per il fatto di restare in vita. Le parole non descrivono il crimine; molto spesso ne preparano il palcoscenico morale, gli conferiscono legittimità e lo rivestono di una quantità sufficiente di "neutralità" affinché passi senza essere messo in discussione.
Quando si dice "ci sono stati dei morti" invece di "sono stati uccisi civili", quando "massacro" viene sostituito da "escalation", e quando il termine "scontri" viene riciclato in una scena in cui solo una parte si scontra con corpi disarmati, non siamo di fronte a un semplice errore linguistico, ma a una consapevole ingegneria del significato. Qui il linguaggio si trasforma da strumento di interpretazione a strumento di giudizio, da mezzo di comunicazione a arma morbida non meno letale delle bombe, perché uccide la verità prima ancora dei corpi.
Nel contesto palestinese, questa battaglia linguistica appare ancora più sfacciata. Il palestinese non viene solo ucciso: la sua morte viene ridefinita. Non viene solo bombardato: è inserito nel quadro di una "risposta". Non viene solo espulso: il suo sradicamento viene riformulato come "misura di sicurezza". In parallelo, all’occupazione viene concesso il diritto di nominare, il privilegio del linguaggio e l’autorità della parola. Chi possiede il vocabolario possiede il racconto, e chi possiede il racconto possiede la legittimità, anche quando si tratta di una legittimità fondata sul sangue.
Questo pregiudizio non è più una questione di valutazione politica, ma un modello linguistico rintracciabile nelle pratiche delle maggiori agenzie di stampa occidentali. Quando intere famiglie palestinesi vengono uccise, titoli come "Alcune persone uccise in raid su Gaza" occupano le prime pagine, senza menzionare l’autore, senza qualificare le vittime come civili e senza indicare che il luogo colpito è un quartiere residenziale. L’azione è presente, ma l’agente è assente, e il risultato è lo stesso: un crimine senza colpevole.
Un’agenzia come Associated Press ricorre alla forma passiva quando la vittima è palestinese e torna all’azione diretta quando è israeliana. Il palestinese "viene ucciso", mentre l’israeliano "viene ucciso da". Questa differenza grammaticale non è un dettaglio, ma una scelta narrativa che determina chi merita empatia e chi viene ridotto a una cifra.
La BBC, dal canto suo, costruisce un vocabolario specifico per la Palestina: non "occupazione" ma "conflitto", non "colonie" ma "insediamenti contesi", non "massacro" ma "incidente sanguinoso". Nella maggior parte dei casi, alla narrazione israeliana viene concesso lo spazio interpretativo iniziale, mentre la voce palestinese è relegata ai margini, ridotta, privata del contesto.
Persino Reuters, che tende a evitare un linguaggio emotivo, cade nella trappola del "bilanciamento automatico", riducendo un rapporto di forza asimmetrico a una "spirale di escalation" e separando l’evento dalla sua storia e il crimine dalla sua struttura.
Non si tratta di errori professionali isolati, ma di un sistema di produzione linguistica che vede in Israele uno "Stato" e nel palestinese una "questione". Al primo viene riconosciuto il diritto all’interpretazione, al secondo concesso solo un margine di dubbio. In questo modo il linguaggio si trasforma da strumento di rivelazione a mezzo di normalizzazione della violenza.
La tragedia si aggrava quando questo discorso trova spazio nei media arabi, non come materiale da decostruire, ma come testo pronto da tradurre e ritrasmettere. Gli stessi titoli, gli stessi termini, persino lo stesso ordine narrativo, come se le redazioni arabe funzionassero da uffici di traduzione e non da spazi sovrani di produzione del significato.
Il media occidentale schierato esercita il suo potere da una posizione di forza; il media arabo succube lo esercita da una posizione di debolezza. Il primo impone la propria lingua perché possiede la piattaforma e la legittimità; il secondo la adotta perché manca di fiducia nella propria capacità di produrre un'alternativa. Il risultato è identico: l’emarginazione della narrazione palestinese e la riproduzione di un discorso che la priva della sua dimensione umana e politica.
Ciò che questo sistema non aveva previsto è che l’egemonia linguistica non è eterna. Con l’espansione dello spazio digitale, la moltiplicazione delle testimonianze dirette e la crescente contraddizione tra immagini e discorso, la fiducia tra il pubblico occidentale e i suoi media ha iniziato a erodersi. Giornalisti e commentatori presentati come "riferimenti morali" si sono trovati sotto una crescente contestazione pubblica e di fronte a un brusco calo di credibilità. L’accusa di parzialità non proveniva più dalla periferia, ma da un pubblico che aveva visto con i propri occhi ciò che il linguaggio non era più riuscito a occultare.
Le ragioni di questo declino convergono in un unico punto: lo scarto tra discorso e realtà. L’incapacità di un vocabolario ripetitivo di giustificare l’uccisione di massa, il crollo della narrativa della "legittima difesa" di fronte a immagini che non ammettono interpretazione, e l’emergere di un doppio standard nel confronto fra la Palestina e altri contesti. Sotto questa pressione, alcune piattaforme occidentali sono state costrette a modificare parzialmente il loro linguaggio: cambiamenti terminologici, un'apertura limitata alla voce palestinese o una diversa gerarchia delle notizie. Non è stata un’ammissione, ma un segno di smarrimento.
In questo frangente, i media arabi si sono ritrovati nudi. Dopo anni di appoggio al discorso occidentale come riferimento "sicuro", quel discorso è arretrato o si è trasformato, e i media arabi non disponevano di un proprio vocabolario. Nessuna narrazione indipendente, nessun riferimento etico stabile. Un sistema mediatico che aveva imparato più a tradurre che a pensare si è ritrovato solo, senza un testo preconfezionato.
Questo smarrimento ha rivelato una verità strutturale: una parte dei media arabi non era soltanto subordinata, ma opportunista. Avanzava dove avanzava il vento e arretrava dove arretrava, senza una bussola interna. E quando i media occidentali, in alcuni casi, sono stati costretti a cambiare linguaggio a favore dei palestinesi, i media arabi non hanno saputo come reagire: seguirli in ritardo? Tornare a una lingua ormai obsoleta? Oppure tacere in attesa di un nuovo segnale?
Nei momenti di svolta, non sopravvive chi segue, ma chi precede. E non resiste chi scommette sulla lingua altrui, ma chi ha il coraggio di produrre la propria. Nei momenti di sterminio, il silenzio non è neutralità e il linguaggio non è una tecnica. Ogni parola è una presa di posizione e ogni definizione è un allineamento.
Non si tratta di invocare un discorso propagandistico, ma di rivendicare un diritto fondamentale: il diritto a una denominazione indipendente. Dire "uccisione" quando c’è un’uccisione, "massacro" quando c’è un massacro, "occupazione" quando c’è un'occupazione. Non perché l’Occidente lo ha detto in ritardo, ma perché la verità lo ha detto fin dall’inizio.
Nella battaglia della coscienza, non basta possedere la verità: bisogna possederne il linguaggio. Perché chi perde la parola perde il significato, e chi perde il significato perde tutto.
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