26 Novembre 2025
"Vegliardo", un disegno di Massimo Triolo del 2007
Arrivai alle possenti porte di quella città dimenticata da Dio e mi chinai a raccogliere le usanze che dell’assiduo viandante sono legge, mostrando un ampio inchino a tanta magnificenza. Ma scuro sangue lastricava i vicoli stretti che andavano snodandosi, al mio incedere svelto, nelle viscere del borgo. Un severo tempio vegliava, abbracciandola, la prospiciente corte con giardino, composta di superbi archi a sesto acuto con eburnee colonne binate sotto i rispettivi piedritti – al centro, erba secca e gialligna, alberi morti dai nudi rami bianchi come propaggini d’osso. Solido e imponente, in sé compattamente raccolto, il tempio pareva schermirsi dalla mia curiosità.
Ad ogni gesto, ad ogni respiro potevo sentire il gravame di secoli strisciati fra quelle mura come acqua piovana per solchi antichi; ed era tempo lordo d'ingiurie e vessazioni, ed erano testimoni umbratili di un trascorso efferato, le tante macchie brune screzianti l'avita pietra. Il sole dardeggiava sui ruderi, l’aria bollente mordendo la dura roccia e levandosi per ogni dove un acre fetore che penetrava acutamente il mio olfatto con la sua essenza mefitica e oleosa. Quel luogo sembrava essere gonfio d'odi mai sopiti, trasudare orrori innominabili.
Il moltiplicarsi dei passi per gli spazi angusti ritagliati da case e casupole era tale da procurare profonda inquietudine ed ogni abitazione pareva avere le proprie mute sentinelle nelle ossa ammucchiate e rinsecchite ai bordi delle strette vie. Il frusciare dei topi in lunghe schiere andava amplificando il mio disagio, avvoltoi monaci e grifoni a nugoli, aleggiavano vorticosamente sopra carcasse umane e animali, strappando a turno gli ultimi stracci di carne putrente rimasti a cingere la nivea nudità degli scheletri: una macabra ridda di assalti che non si sarebbe esaurita finché persino l'ultimo pezzo di carne fosse rimasto appeso alle ossa. Ristetti ammaliato da quella danza di morte e vita che parlava di sacrifici perpetratisi nei millenni in onore di un solo Dio, fabbro titanico di forme sempre nuove.
Feci visita ad un piccolo cimitero sulla cima di una bassa collina, a pochi passi dal tempio. Un ampio cancello in ferro battuto ospitava pregevoli intarsiature raffiguranti antichi cicli di vita agreste, oltrepassandolo notai ad un centinaio di metri di distanza una figura alta e segaligna; era un vecchio – la sola persona vivente che avessi incontrato fino a quel momento. Lavorava alacremente di vanga, non volli disturbarlo tanto era affascinante vederlo all’opera, ma mi avvicinai con passo lieve per meglio osservarlo. Immerso nel suo lavoro non fece caso a me. Il volto ricolmo di tristezza, profondamente scavato, pure emanava soddisfazione e tranquillità; una folta barba bianca pendeva scarmigliata dal labbro assente, le bianche lane dei capelli, soffici e voluttuose, mosse da una brezza amica. Feci per parlare e con un cenno brusco della mano mi mise a tacere; era chiaramente lieto di ricevere l’inaspettata visita: un sorriso sfuggente gli era sbocciato in volto, ma evidentemente era uomo di poche parole e doveva aver condotto per anni una vita solitaria che gli aveva regalato pace e rispetto per il silenzio. Quand'ebbe finito di scavare la fossa ripose la vanga e mi venne incontro.
– Per chi è quella fossa? – chiesi indicando il lavoro appena compiuto. Non mi rispose e prendendomi sotto braccio mi accompagnò al limitare del cimitero che era anche l'orlo di un alto pendio; da quel punto si dominava l'intero villaggio. Con un largo gesto della mano accarezzò i tetti delle case, le tortuosità di un ruscello argentato, i merli di un massiccio castello in pietra serena; mi stupii dell'efficacia di quei pochi gesti e capii che grande uomo avevo accanto. Sopra le nostre teste si richiudevano pingui nubi a strozzare la luce del giorno; io dissi: – Avevo chiesto per chi era la fossa, non a chi appartenesse l'intero cimitero –. Il brav'uomo rise e mi allungò una pacca d'amicizia sulla spalla.
Camminammo in lungo e in largo per il cimitero, su di un soffice tappeto di foglie ingiallite; respiravo non solo l'aria salubre di quel luogo – dove non arrivava ancora l'acre fetore che regnava a valle – ma pure quiete indicibile. Poi il sole tornò a ristorarci, nutrendo la pelle di tepore e gioia. Alcuni uccelli spazzini saltellavano allegramente attorno ai nostri passi.
Di colpo arrestò il suo incedere bisbigliandomi queste parole: – Cosa fai in questo luogo, tu che ami la vita? Qui è rimasta solo morte, morte e desolazione, io stesso sono morte e desolazione –. Mi chinai a raccogliere un fuscello secco e nodoso per non sostenere il suo sguardo e risposi in tono fermo: – Sono un viandante ed amo la vita in ogni sua forma, con sentimento dionisiaco, e lei sa che morte è vita e vita è morte –. Il vecchio riprese a camminare ed io gli rimasi alle spalle, di nuovo si fermò e disse: – Una risposta buona ma incompleta, tu devi aver passato la vita a esorcizzare la morte e a fugarne perfino l’idea, leggo nel tuo sguardo che la temi più d'ogni altra cosa, e vorresti che esistesse la prima disgiunta dall'altra. Non è forse così? – Balbettai qualcosa d'incomprensibile e provai una cocente vergogna.
– Non provare imbarazzo figliolo, – soggiunse il vecchio in tono carezzevole: – io stesso rinunciai a coltivare vita il giorno in cui la morte mi passò vicino, e da allora mi lascio morire in questo luogo di morte –. Ma lei è straordinariamente vitale, stavo per dire quando mi accorsi della mia improntitudine. Lanciandomi uno sguardo di rassegnazione: – Sai, la maggior parte delle persone crede nella vita e nella libertà, niente di più contraddittorio. La libertà di scelta, invero, comincia a morire col nascere di una nuova vita. La libertà non è condizione che ci appartenga, – con voce crescente, – non è cosa naturale: l'uomo ed ogni altra creatura che popoli la terra non nasce libero, ma schiavo della propria esistenza, condizione pregressa al suo volere –.
– Io non mi sento schiavo d'alcunché, – risposi irritato.
Le nuvole assecondavano il nostro cammino stagliando larghe ombre lungo il selciato.
– Vorrei poterti dare ragione ragazzo, – proseguì il vecchio con voce stanca e franta.
– Io non ho negato, – soggiunsi in risposta, – che un alito di morte, di stagnante rinuncia, aleggiasse in lei, perché non dovrebbe fare altrettanto lei nel riconoscere in me la vita nella sua forma più genuina ed esuberante? In fondo esiste un’intrinseca necessità naturale in entrambe queste due condizioni –. Voltandosi nuovamente verso di me: – Sei una persona ammirevole, sono felice che ti sia imbattuto nella mia strada fatta di mortifere stanchezze.
Calava la sera, sulla fossa scavata di fresco, sulle lapidi tristi, sui campi deserti e su ogni altra cosa coronasse quell'imperturbabile riposo.
– Resterò per un po’ qui accanto a lei se me lo permette, – dissi: – l'amicizia è una conquista preziosa.
Ci stringemmo in un abbraccio interminabile e da quel momento siamo un'unica anima.
Di Massimo Triolo
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