22 Luglio 2025
Racconto Raso Rosso Massimo Triolo Fonte: Trioloblog
Lui e Anna si erano separati dopo un lungo periodo di scaramucce senza tregua, piccole bassezze e ricatti che avevano lastricato l’ultimo tratto di strada assieme e portato il loro già logoro rapporto in uno stato di esacerbazione e cancrena. Le aveva lasciato la casa e se n’era andato in cerca di un’altra sistemazione: il suo lavoro era solido e redditizio, e non avrebbe avuto difficoltà a trovare una collocazione idonea alle sue non poche e non basse esigenze; ma nonostante fosse disposto a spendere cifre ben più ragguardevoli, l’agenzia a cui si era rivolto ebbe a proporgli una locazione eccellente e a un prezzo che gli parve straordinariamente basso se comparato alla sua ampiezza e ai suoi notevoli pregi. Ma da quando si era trasferito nella nuova casa, una splendida dimora coloniale, aveva cominciato a dormire male e ad avere disturbi del sonno. Gli incubi che faceva erano così vividi e sconcertanti, che prendeva stimolanti per non addormentarsi la notte. Era notevolmente dimagrito e in uno stato di costante eccitazione… Il pensiero di dover ricominciare a recuperare ore di sonno, era per lui penoso, sapendo che sarebbe tornato ad avere gli incubi, o meglio l’incubo: perché lo stesso contenuto onirico, fatta eccezione per qualche piccola variante, si ripresentava sempre uguale… Ed era atroce… Si svegliava madido di sudore, con respiro affannoso e appiccicata addosso la sensazione allarmante di essere in pericolo e il ricordo di dettagli orribili che stemperavano solo dopo attimi di puro panico. La cosa che aveva dell’incredibile è che si svegliava sempre alla stessa ora del mattino: le quattro e un quarto, quasi che avesse dentro una sorta di congegno biologico a tempo che dettava il suo risveglio a quella precisa ora. Per tenersi occupato e non pensare, a sera e lungo tutta la notte, faceva le cose più assurde per non scivolare nel sonno: pulizie di casa, piccole riparazioni, bricolage, stesura di diari personali in cui annotava tutte le cose significative che gli avvenivano e in cui, in maniera catartica, rievocava dettagli dei suoi sogni inquieti come per esorcizzarne la carica turbante.
Nel fine settimana, aveva cominciato a recarsi, con iniziale riluttanza e poi con assidua puntualità, in un piccolo cinema del posto che proiettava film di vecchia uscita, perlopiù classici, fino a tarda notte… L’Empire, era un cinema che aveva visto in passato tempi migliori e adesso lottava contro una probabile chiusura definitiva… Era stato per caso che dopo uno dei suoi inquietanti incubi era uscito a prendere una boccata d’aria fresca e passeggiando si era imbattuto nell’Empire… La locandina, quella notte, esponeva il titolo: “Presenze spettrali”; gli era parso un caso singolare e una coincidenza perfetta con ciò che stava vivendo, e senza pensarci su troppo aveva pagato il biglietto ed era entrato a seguire la pellicola. Niente di eccezionale, un horror modesto e privo d’inventiva, che però, nelle circostanze che viveva da settimane, gli aveva impresso una notevole suggestione… Disegnava anche, per trascorrere il resto delle proprie notti… Era una cosa che aveva sempre coltivato nel tempo, ma mai senza particolari velleità artistiche, solo per il piacere di farlo, tenendo per sé i risultati di quel suo cimento e senza mostrarli mai a nessuno. Negli ultimi tempi, però, i suoi disegni erano sempre più astrusi e contorti, inquietanti, tracciava i segni sulla carta come in uno stato di trance e attraverso un flusso creativo simile a un raptus… Passavano ore prima che terminasse un soggetto e non si accorgeva del trascorrere del tempo. In tutti i suoi ultimi disegni, compariva una presenza che era sempre comparsa anche nei suoi incubi, i contorni rimanevano sbiaditi e incerti, ma arrivava a raffigurare il suo volto con una certa dovizia di dettagli… Era una ragazzetta pallida e di gracile figura, con uno sguardo ferino e inquietante, aveva negli occhi un lampo selvaggio e sebbene Dan provasse reale terrore di quella presenza, come per effetto di una carica perturbante, non poteva impedirsi di tornare a raffigurarla. Ora non poteva fare altro che tornare a recuperare sonno, aveva cominciato ad avere cenni di allucinazioni visive e auditive, sempre legate ai passati incubi, e questo per via del ciclo circadiano completamente sconvolto. In quelle allucinazioni poteva sentire la voce della ragazzina sussurrare poche ripetute parole, prima fioche e impercettibili, poi urlate con foga: “Aiutala! Devi aiutarla… Salvala!”
Ma chi mai doveva salvare? Perché quell’entità umbratile cercava il suo aiuto? Inizialmente l’aveva creduta terribile e ostile, e aveva visto dettagli di violenze e sevizie, come se nella sua mente scorresse la pellicola di un film perverso in cui poteva vedere dei primissimi piani di violenze e manipolazioni della carne… Ma chi le infieriva a chi? Questo era lontano dall’essere chiaro. Aveva soltanto una certezza adesso, che la presenza non lo tormentava allo scopo di terrorizzarlo, ma come se volesse dialogare con lui. Ogni suo incubo si concludeva allo stesso modo: poteva vedere un cavallo nell’ombra, la sua nera sagoma, e leggere nel suo occhio umido il lampo di un sentimento di terrore che si comunicava integralmente a Dan come per una sorta di osmosi o travaso emotivo. Fu durante una delle sue notti insonni che rassettando la soffitta, trovò un baule verde dai cardini arrugginiti e la vernice crepata e squamosa che lasciava affiorare da sotto il legno di cui era fabbricato. Aprì il baule e trovò dei vecchi giocattoli e dei quaderni ingialliti che attirarono subito la sua attenzione. All’interno erano vergati da lettere ricciolute e infantili… Li prese tutti scuotendoli dalla molta polvere che avevano accumulato, chiuse il baule e scese in sala e sedette sul divano per principiare la lettura del contenuto. Quello che rinvenne dalle fitte righe a inchiostro blu presenti nei quaderni, era una storia raccapricciante, narrata in prima persona da una bambina di nome Gloria. Gloria aveva perso la madre in un incidente domestico, almeno questa era la versione ufficiale, perché la bambina sembrava essere a conoscenza di ben altra verità. Ella sospettava che il padre avesse brutalmente percosso la moglie inscenando poi una sua caduta dalla rampa delle scale, rampa che Dan riconobbe con terrore essere la stessa della dimora che ora abitava. I diari proseguivano con una agghiacciante cronaca di soprusi e sevizie che il padre aveva inferto alla figlia: la piccola Gloria. Le pagine erano intervallate da disegni che Dan scoprì essere non solo macabri e perversi, ma in tutto simili per stile a quelli che lui aveva recentemente realizzato.
Decise che sarebbe andato in fondo a tutta quella faccenda per risolvere l’enigma di cui incubi e visioni non erano un semplice epifenomeno, ma il ganglio della stessa possibile soluzione.
Il mattino seguente si recò all’agenzia immobiliare cui si era affidato solo qualche mese prima e che gli aveva proposto l’offerta che sembrava non dover avere eguali e puzzava ora di bruciato. Fece prima una breve ricerca su Internet riportando sul motore di ricerca l’indirizzo della sua nuova abitazione; non rinvenne risultati immediatamente, ma associando all’indirizzo la parola “Crime” (Crimine) ottenne risultati immediati e illuminanti. Il giornale locale dell’epoca, alla data del 4 settembre di dieci anni prima, riportava notizia di un ripugnante scandalo: Jeff Bloom, noto avvocato e persona stimata dalla comunità, era divenuto per la cronaca il Mostro di Lexington, dopo aver tenuto quasi completamente segregata la figlioletta per anni, infierendo su di essa con ripetute sevizie e sadiche punizioni corporali. La figlioletta, che portava ancora nel corpo la mappa esatta delle torture subite, era stata immediatamente affidata alle cure mediche e al sostegno degli assistenti sociali per destinarla a un istituto di cura e accoglienza in vista di un affidamento presso possibili genitori adottivi. Gloria aveva nove anni e un fratello di un anno più piccolo che il padre, a quanto pareva, aveva risparmiato da ogni violenza, ma costretto sistematicamente ad assistere alle torture che infliggeva alla sorellina. Il bambino, di nome Louis, aveva solo sei anni ed era stato anch’esso affidato alle cure dello stesso istituto e destinato ad adozione. L’articolo chiudeva precisando che Bloom era riuscito a celare la penosa condizione della figlioletta essendosi incaricato lui stesso della sua educazione, senza assegnarla ad alcun istituto scolastico, e gestendo in modo subdolo e ricattatorio presso la verde e suggestionabile mente della piccola, la propria condizione di insospettabilità presso gli odiosi crimini commessi, e limitando al minimo la vita sociale della sfortunata vittima. Intervistati, i vicini e la gente del paese, dichiaravano di essere rimasti allibiti e di aver sempre visto nella condotta del noto avvocato e ora criminale, l’immagine di un padre forse severo e vecchia maniera, ma estraneo per certo alle vicende per cui adesso passava alla cronaca. Bloom era deceduto per infarto in una prigione federale, a quarantanove anni, tre anni dopo la mostruosa vicenda. L’articolo era corredato da una foto di Gloria e Louis sbiadita dal tempo, ma Dan poté riconoscere, nella bambina della foto la presenza che gli appariva in sogno.
Dan fece anche una ricerca relativa a Gloria Bloom, abbinando gli anni che risultavano, relativamente alla sua età, sottraendo la cifra nove alla data in cui era uscito l’articolo, e dopo alcuni tentativi a vuoto rinvenne un trafiletto che recava notizia del suicidio della diciannovenne Gloria Bloom, classe 2001, la quale era passata alla cronaca dieci anni prima per essere stata figlia e vittima del Mostro di Lexington; era stata poi data in affidamento alle premurose cure di una nuova e rispettabile famiglia della Carolina, che aveva tentato, ma in vano, di guarire le sue turbe ancora “vive e manifeste come le cicatrici che portava nel giovane corpo, e tali da sfociare nel gesto estremo del suicidio”– così recitava enfaticamente il pezzo. Non era riportato il nome dei genitori che l’avevano avuta in affidamento, dei quali comparivano solo le iniziali.
Dan rimase perplesso, perché nei suoi sogni Gloria gli appariva ancora bambina, esattamente uguale alla foto di lei che era presente nel primo articolo che aveva rinvenuto, quasi che il suo spirito fosse rimasto irretito e sospeso in quell’età.
In agenzia, Dan andò su tutte le furie, e a parziale risarcimento dell’omessa notifica, in sede di compravendita della casa di Lexington, delle atroci vicende di cui era stata teatro, ottenne di sapere da uno dei suoi funzionari che anni avanti aveva lavorato nella polizia, il nome dei genitori che l’avevano adottata. Non sapeva ancora bene dove lo avrebbero condotto quelle frenetiche ricerche, ma l’intuito gli diceva che era sulla strada giusta. Nel frattempo i suoi incubi sembravano essere in uno stato di quiescenza, quasi che lo spettro di Gloria fosse soddisfatto della strada che lui stava imboccando.
Fece un’altra ricerca su Internet inserendo nome e cognome del fratello di Gloria e associandovi ogni riferimento possibile alla sciagurata vicenda di dieci anni prima. Trovò altri articoli di quell’epoca ma nessun indizio sull’attuale vita del ragazzo. Aveva saputo dalla “gola profonda” dell’agenzia che, nonostante Louis vivesse sotto nuovo nome e avesse una nuova identità dei cui dettagli non era al corrente, gli era noto che fosse stato studente presso la High School di M.Località che risultava essere nello stesso Stato di Lexington. Aggiunse che al tempo il ragazzo giocava nella squadra di baseball della sua scuola ed era conosciuto per essere una specie di stella in quello sport, sarebbe passato alla categoria professionistica se non avesse gettato la spugna per via di un infortunio. Ma questi elementi non aggiungevano niente di dirimente, e a questo punto Dan non aveva né un volto né un nome esatto per fare ricerche sugli studenti della classe 2002 all’interno di quell’istituto scolastico. La sola strada che poteva percorrere era quella che avrebbe potuto portarlo a Louis per via indiretta, ovvero recandosi a fare visita dai genitori adottivi di Gloria, la quale sicuramente doveva aver mantenuto una qualche forma di rapporto col fratello sebbene affidata ad altri genitori, i quali si suppone fossero a loro volta in contatto con i genitori adottivi di lui… E lo avrebbe fatto fingendosi un giornalista che volesse rievocare non tanto le vicende drammatiche che avevano accomunato Louis e Gloria, quanto la seconda occasione che essi avevano avuto per vivere una vita degna di questo nome, mettendo l’accento sul fatto che Gloria, probabilmente, aveva avuto il suo ultimo destino già segnato fin da dieci anni prima del gesto estremo di togliersi la vita, ed era rimasto tale e fermo a quegli anni pregressi nonostante le premure e l’affetto che loro le avevano prodigato.
Affrontò il lungo viaggio fino in Carolina e si recò all’indirizzo fornitogli. I Logan, genitori adottivi di Gloria, accettarono il suo invito a entrare per fargli alcune domande e si rivelarono essere persone molto umane e dignitose. Non fece velo alla sua intenzione di sapere il più possibile di Gloria e suo fratello, il quale, dissero loro in risposta, non aveva mantenuto rapporti che di superficie con la sorella. Si sentivano di rado e si vedevano ancor più raramente. Gloria era stata una studentessa modello e aveva un carattere amabile, ma era rimasta una bambina, a livello emotivo: era umorale e manifestava stati di irascibilità anche di fronte a situazioni ordinarie e apparentemente senza motivi comprensibili. Gli psicologi che avevano continuato a seguirla nel tempo, erano tutti concordi nel dire che la ragazza manifestava una sorta di fissazione a uno stato immaturo della sfera pulsionale risalente ai terribili eventi subiti, ma che aveva a loro volta rimosso. Era rimasta, insomma, la bambina che era stata in quel drammatico passato in cui il padre la torturava. Non era stato facile accudirla e crescerla, un’abitudine che non aveva mai perso era quella di infliggersi ferite: l’autolesionismo, avevano detto ai Logan i dottori, era una delle conseguenze comuni a violenze subite in età precoce alle quali non si è potuto attribuire un motivo o un senso diverso dalla loro apparente gratuità. Vestiva sempre di nero e sembrava odiare i colori, aggiunsero i Logan: come se fosse perennemente in gramaglie per il luttuoso destino che aveva subito da piccola. Dan annotò tutto e chiese di poter avere l’indirizzo di Louis per parlare anche con lui. I Logan sembrarono contenti di accontentarlo e niente affatto scossi nell’aver rievocato tutto a proposito di Gloria, erano evidentemente persone solide, dai modi sobri e con sentimenti semplici e diretti che esprimevano genuinamente. Segnato sul blocchetto con il quale aveva preso appunti, l’indirizzo di Louis, Dan prese congedo e ringraziò i Logan del loro aiuto.
Adesso, tra l’altro, capiva perché lo spettro di Gloria gli apparisse nelle sembianze della bambina che aveva subito quelle terribili sevizie.
Compiuto il viaggio di ritorno a Lexington, Dan era stremato ma soddisfatto… Louis abitava nello stesso Stato di origine, in un paesino di nome Black Horse, non lontano da Lexington, al numero 415 di Empire Road; e, così gli avevano detto i Logan, si divideva tra il ruolo di allenatore di baseball e la professione di meccanico, avendo abbandonato gli studi superiori al quarto anno. Quella notte Dan ebbe di nuovo incubi atroci e quando si svegliò in preda al solito panico, guardando il quadrante luminoso della sveglia, capì esattamente dove Gloria voleva portarlo. Erano, come di consueto, le quattro e un quarto del mattino, che lette in successione formavano la cifra 415: era la stessa del numero civico sull’indirizzo che aveva appuntato… Il cavallo del suo sogno, invece, non era un cavallo nell’ombra, del quale fosse visibile la sagoma, ma un cavallo dal manto nero: Black Horse, la località. Per non parlare del nome della via, che solo adesso si rendeva conto facesse il paio con quello del cinema che aveva iniziato a frequentare la notte in cui proiettava quella pellicola horror dal nome dozzinale ma fatidico. Ma perché condurlo dal fratello? Quale elemento avrebbe potuto aggiungere la loro reciproca conoscenza, sulla strada di esaudire il cocente desiderio espresso da Gloria? Ma c’era ancora un dettaglio, un particolare che non gli era mai apparso in sogno prima di quella notte: era uno stemma che non aveva mai visto prima… E non sapeva davvero che significato potesse avere… Compariva però a guizzi sovrapponendosi a primissimi piani di altre torture della carne.
Nell’ultimo sogno aveva anche visto chiaramente il baule verde in cui aveva rinvenuto i quaderni. Senza esitazione era andato a frugarvi nuovamente. Dentro una vecchissima scatola di sigari, trovò ripiegati dei ritagli di giornale. Alcuni risalenti fino a tredici anni prima… Erano tutti relativi a scomparse di minori, ma in luoghi differenti: nessuna relativa a Lexington. Gli articoli, col passare cronologico del tempo, avevano toni sempre più allarmanti, perché le autorità non erano riuscite a risolvere i casi di sparizione, né a collegarli logicamente tra loro per circostanze e indizi, anche se supponevano la presenza di un maniaco omicida che rapisse i bambini per poi ucciderli. Non poteva essere un caso se gli articoli erano in quel baule e pensò immediatamente che solo una persona poteva averli conservati con quello scrupolo, e non una persona qualsiasi ma un pazzo sadico: il padre di Gloria. Evidentemente la polizia, al tempo, vista l’evidenza delle prove della segregazione di Gloria e a carico di Bloom, e imputando a questi non altro che quella specifica vicenda, aveva condotto la perquisizione della casa in modo approssimativo e messo sossopra solo la cantina: luogo in cui la bambina veniva rinchiusa e punita anche per giorni. Non solo, ma il padre doveva avere sicuramente un luogo segreto, uno spazio o una dimora abbandonata, in cui portava le proprie vittime, e non certo la casa perquisita dalla polizia: la sola da lui regolarmente posseduta e nella quale Dan supponeva non fossero state rinvenute tracce, organiche o meno, di altri soggetti. Adesso l’entrata di accesso alla cantina era murata: un tempo doveva essere accessibile attraverso una botola sul pavimento… Dan pensò tra sé che anche nel caso fosse stata ancora accessibile non avrebbe potuto rinvenirvi niente di notevole dopo le regolari perquisizioni compiute all’epoca dei fatti. Ora doveva solo pensare a raggiungere il fratello di Gloria.
Black Horse era un paesino rurale sonnolento dove tutto sembrava vecchia maniera: pareva fosse rimasto alla temperie e all’aspetto che poteva aver avuto già trent’anni prima. Una sola parola sembrava riassumere verosimilmente a cosa era improntata la quotidianità del luogo: tradizione… E il trascorrere del tempo sembrava non averla intaccata. Conosceva quel tipo di luoghi tipici della profonda provincia americana, la cui colonna dorsale era uno stile di vita sobrio, ripetitivo, e fatto di piccole consuetudini sospese nel tempo come in un fermo immagine valoriale fatto di familiarità reciproca e quieto vivere. Era una splendida giornata e si respirava un sentore di primavera incipiente. Dan non ebbe difficoltà a trovare un posto in cui parcheggiare, lasciò la macchina nella strada centrale, in uno spiazzo prospiciente il palazzo municipale, che aveva una struttura quadrangolare a blocco e i cui mattoncini rossi spiccavano alla luce del sole… La bandiera a stelle e strisce, issata sul tetto del municipio, schioccava al vento stagliandosi contro il cielo perfettamente turchino e sgombro da nuvole.
Fece una piccola passeggiata a piedi fino a una tavola calda, entrò e ordinò un’abbondante colazione a base di frittelle e torta al limone, caffè nero che gli servirono in una tazza con su il disegno di un cavallo rampante – che immaginò essere l’effige del luogo –, e con la leziosa scritta recitante: “Benvenuti in un pezzo di Paradiso”. Dan pensò sorridendo sardonicamente di avere tutta un’altra idea di paradiso. Il posto aveva un aspetto anni Cinquanta, con tavoli quadrangolari ancorati a incasso sui muri e divanetti in similpelle rosso autunno. Alle pareti erano affissi, incorniciati, poster di vecchie glorie del cinema e relative star. Sul soffitto vorticavano gemendo delle ventole per l’areazione, ma nell’aria stagnava un odore di fritto piuttosto spesso. Consumò la sua colazione al banco e, sempre fingendosi un giornalista, chiese al garzone affaccendato dietro di esso notizie di Louis: in che officina lavorasse e come poteva raggiungerlo. Prima che il ragazzo del banco potesse dargli una risposta sentì toccarsi su di una spalla. Si girò di colpo con uno scatto istintivo e vide un uomo corpulento in divisa: aveva un volto porcino e due occhietti grigi e inespressivi, un aspetto solido e granitico. Questi gli disse senza preamboli: “Qui a Black Horsenon abbiamo bisogno di ficcanaso di città… Questa è una comunità tranquilla, qui tutti si rispettano e non si creano grane a vicenda… Non crede che quel ragazzo abbia sofferto abbastanza senza bisogno di un giornalista d’assalto che gli faccia rivivere tutta quella brutta faccenda? Ci sono solo due generi di persone nella nostra cittadina: chi c’è nato e chi fugge dai guai del passato per avere una vita tranquilla e una seconda occasione.”
Dan ricordò prontamente quanto gli aveva detto l’”informatore” dell’agenzia circa la straordinaria attitudine di Louis per il baseball e che sarebbe diventato qualcuno in quello sport, se non avesse avuto un infortunio. Così improvvisò come poteva una risposta alle secche parole dello sceriffo col suo tono più diplomatico: “So del lontano passato di Louis, della sua drammatica infanzia, ma non sono qui per rievocarlo, sono un giornalista sportivo e volevo ripercorrere assieme a lui i tratti delle sue folgoranti stagioni agonistiche e sapere dell’infortunio che ha stroncato la sua promettente carriera… So che era qualcuno prima di quell’incidente, ho visto le score-cards sportive risalenti al tempo, e sono straordinarie… Mi dicono che era a un passo dal passare dalla American LegionBaseball alla categoria professionistica della Hall of Fame... Vorrei scrivere un pezzo che sia in bilico tra cronaca e narrazione, e possa essere d’esempio soprattutto per i più giovani… Del resto Louis non si è dato per vinto e ha cominciato ad allenare molte altre giovani promesse del baseball.”
Lo sceriffo fece una smorfia di diniego e girò i tacchi uscendo dal locale e sibilando a mezza voce: “Stronzo damerino di città”.
Dan non volle dare a vedere che aveva fretta e si mise a sfogliare il quotidiano locale che stava sul bancone… Ma quella specie di bolsa caricatura di John Wayne l’aveva reso inquieto. Improvvisamente si sentì stupido e fuori luogo… Ma decise comunque che sarebbe andato avanti nelle sue ricerche e che l’idea del giornalista sportivo poteva venire buona per presentarsi a Louisproprio in quelle veci. Uscito dalla tavola calda, estrasse il telefonino e cercò su internet l’officina di Louis. Alla voce “officina meccanica” corrispondevano due sole attività in quel buco di provincia, ma nel nome di quelle nessun riferimento che potesse risultare dirimente circa la scelta di quella gestita dal ragazzo. Decise di chiamare entrambi, ma fece centro al primo tentativo, chiedendo senza por tempo in mezzo di Louis: questi, sulla scorta dell’approccio di Dan, capì al volo che all’altro capo del telefono stava un forestiero e che non era interessato a richiedere i suoi servigi; rispose alle parole impacciate di Dan, con un tono circospetto e chiedendo di rimando chi lo cercasse e perché. Dan dette la stessa versione, circa le sue intenzioni, che aveva dato allo sceriffo e questa volta il tono del ragazzo si schiarì e si fece rilassato e accomodante: sembrava entusiasta dell’idea di essere il protagonista di un articolo sul baseball. Gli disse che avrebbero potuto parlare con calma terminato il lavoro in officina e gli dette il proprio indirizzo… Dan fece finta di non averlo già e di segnarselo, chiedendo disinvoltamente a Louis perfino di fare lo spelling del nome della via… Si sentì determinato e sicuro di se stesso, anche se non sapeva dove avrebbe potuto condurlo quell’incontro. Prima di riattaccare Louis gli aveva chiesto per che quotidiano lavorasse e un brivido freddo gli aveva attraversato la schiena, poi dopo un attimo di sospensione, rivide con l’occhio della mente il nome del giornale locale che aveva sfogliato alla tavola calda e lo pronunziò. “Benissimo, allora ci vediamo alle diciannove a casa mia,” disse Louis, “buona sera.” Dan salutò compitamente.
Si recò all’abitazione con mezz’ora buona di anticipo. Era una modesta struttura in legno la cui facciata, verniciata di bianco, presentava squamose screpolature simili a una lebbra della vernice. Il resto del suo perimetro era verniciato di blu e tutto attorno aveva un ampio giardino in cui l’erba cresceva alta e non curata… Sparsi nel giardino, occhieggianti dal fitto dell’erba, stavano pezzi di motore, ricambi meccanici e abbandonata a se stessa anche la carcassa di una vecchia Ford mangiata dalla ruggine. La casa faceva parte di un quartiere dall’aspetto proletario e trasandato, le altre abitazioni erano perlopiù prefabbricati e nel molto verde incolto ai due lati della strada principale, sostavano anche camper apparentemente adibiti ad abitazione. Sull’altra parte del viale dall’asfalto schiantato e in dissesto su cui crescevano tenaci ciuffetti di erbacce, un vecchio motel fronteggiava la casa di Louis… A Dan fu immediatamente chiaro che doveva aver chiuso i battenti da tempo ed esser rimasto lì, con la sua struttura obsolescente, come un vuoto e cadente simulacro di tempi passati in cui forse l’intero quartiere aveva avuto ben altro tenore. La casa di Louis era un’abitazione senza pretese, pure, tra le altre del posto spiccava per maggior pregio. Vide poco distanti dei bambini a piedi scalzi giocare presso una fontanella guasta che spruzzava a singulti, senza più controllo, getti d’acqua su tutta la strada… Un vecchio con un cinto erniario bisunto, masticava tabacco seduto su di una sedia a dondolo sotto un porticato decrepito, il volto incartapecorito e coriaceo, lo sguardo duro, sputò a terra fissando Dan in modo malevolo. Quel posto gli parve subito ostile e sinistro.
Quando Louis apparì sul vialetto d’ingresso, Dan stava fissando un capanno a lato della casa, che supponeva fosse una sorta di seconda officina, per il proprietario. “Lei dev’essere Dan,“ disse Louis che aveva già risalito il vialetto fino all’ingresso. Dan si voltò di scatto e dopo un attimo d’indecisione sorrise cordialmente e rispose: “Sì, sono io, mi perdoni ma ero assorto e non avevo notato il suo arrivo…” Louis aveva una stazza grande e nerboruta, vestiva ancora la tuta da lavoro a salopette, e sotto una camicia a quadri. Il suo volto era spigoloso e il naso aquilino e sfuggente… Gli occhi, mobili e animosi, di un color nocciola colmo come di un’inquieta luce vitale. “Vogliamo entrare?” disse aprendo la porta. Dan attraversò il porticato nel quale stanziava una vecchia sedia a sdraio che doveva aver visto tempi migliori, e urtò inavvertitamente una campana tubolare che tinnì sonoramente con un suono prolungato che gli abrase i nervi già esasperati dalla tensione in vista dell’intervista. All’interno la casa era molto più accogliente e ben curata, v’era un arredamento povero ma di un certo gusto improntato a sobria eleganza. Ebbero accesso alla sala, piuttosto ampia e adibita a stanza principale su cui metteva direttamente l’ingresso. Il padrone di casa invitò Dan a sedere sul robusto divano di velluto cremisi che tagliava orizzontalmente la stanza rimanendo perfettamente parallelo alla parete d’ingresso, poco a sinistra dell’uscio, e inondato adesso dalla luce caramello del tardo giorno filtrante dalla finestra senza tendine poco dietro lo schienale. Ai piedi di esso, sopra le nude assi di legno del pavimento, v’era un tappeto ovoidale di splendida fattura che cozzava col resto dell’arredo per sontuosità. Dan si scoprì a fissare senza un fuoco e in una specie di vuoto mentale i fregi floreali del tappeto, ma quando Louis prese la parola e chiese da dove dovessero cominciare, rialzò lo sguardo e convogliò tutta l’attenzione su quanto doveva dire per simulare l’intervista. Louis, che era rimasto in piedi per prendere del liquore da un elegante armadietto a vetro, chiese all’ospite volesse bere un cordiale. Lui fece cenno di no descrivendo diniego con il dito indice e ringraziando; Louis, colmatosi un bicchierino, sedette su una delle due poltrone, della stessa fattura e colore del divano, ma lise all’inverosimile e campeggianti davanti ad esso in posizione leggermente obliqua. Dan cominciò chiedendo a Louis se vivesse solo o con i genitori adottivi. Di rimando questi disse con tono non privo di un’inflessione di titubanza: “Quindi lei è a conoscenza della mia famiglia adottiva… Ha fatto ricerche in proposito? Vedo che è un professionista nel suo mestiere… Be’, ho perso entrambi i miei genitori in un incidente stradale… Tre anni fa…” Sembrò rabbuiarsi in viso e Dan stornò la conversazione cominciando col parlare dei massimi sistemi per non dover scendere in dettagli tecnici di cui non aveva alcuna nozione. Cercò di gettare un po’ di fumo negli occhi dell’ex atleta, discorrendo dello sport come occasione per un genuino cimento che temprasse corpo e nervi, e proseguì considerando come la sua sfera agonistica potesse avere qualcosa di eroico: “La dimensione conviviale dello sport, “ disse: “è antica quanto la civiltà tutta, e al centro di un'antica arena come di un campo di gioco si esprime il rigoglio dell'energia dei corpi, come le sottili strategie e tattiche nel contendere... Nello sport, a mio modo di vedere, non vince chi vince, ma chi ha già vinto interpretandolo al proprio meglio, non risparmiandosi e facendo del linguaggio del corpo e dell'azione.... Poesia … La dimensione cui faccio cenno è la stessa che vedeva gli antichi greci celebrare le gesta dei propri eroi... Ogni sport se spinto allo slancio e all'eleganza, alla destrezza e alle astuzie tattiche, ha una dimensione eroica… Tu cosa pensi a proposito?”
Louis sembrò non essere minimamente impressionato dall’ampolloso avvio di conversazione di Dan in merito allo sport, e rispose eloquentemente e con considerazioni che lo condussero infine a riconsiderare la propria vicenda sportiva alla luce di ciò che aveva imparato allenando giovani giocatori. L’intervista proseguì speditamente e Louis era un fiume di parole, cosicché Dan riuscì nell’intento di non mettere a nudo quanto fosse a digiuno di tutti gli aspetti tecnici che Louisandava invece sciorinando in quello che era divenuto una specie di suo facondo monologo. Dan intanto appuntava scrupolosamente ogni parola proseguendo in quella pantomima giornalistica che aveva dovuto improvvisare. Quando Louis disse se c’era altro che volesse sapere, lui alzò lo sguardo dal blocchetto che teneva fra le mani e giunse al punto cui voleva davvero condurre tutta quella messa in scena e rispetto al quale la conversazione era stata solo una fase interlocutoria e preparatrice: “Mi rincresce toccare questo spinoso argomento, ma vorrei chiederle quanto le vicende drammatiche della sua infanzia hanno influito sulla sua sfera emotiva e se lo sport è stato un balsamo e un rimedio alle ferite che le furono inferte… E in particolare, se sua sorella…” Louislo interruppe seccamente sputando parole rabbiose: “Questo non è argomento che la riguardi, e non vedo come possa essere inerente a quello che mi era sembrato lo spirito dell’intera intervista… Se ne vada, per favore! Che scriva o meno il suo articolo, a questo punto non mi interessa, ma stia fuori dalla mia vita personale…” Dan cercò di rimediare in corner e in parte vi riuscì, spese perspicue parole per scusarsi e riprese furbescamente l’andamento che l’intervista aveva avuto prima di quella sua fatidica domanda. Il ragazzo, dal suo canto, sembrò tranquillizzarsi e seppure dando risposte più succinte e con un’espressione rabbuiata, non mostrò altra ostilità e fu disposto a concludere l’intervista. Dan, per conferire maggior realismo al suo alibi di giornalista improvvisato, chiese a Louis se poteva scattargli una foto da abbinare al pezzo. Louis si alzò e disse: “Mi segua”. E così detto lo condusse in una stanza dove era posizionata una larga teca di vetro contenente trofei vinti e altri ricordi del suo passato da giocatore, assieme a scatti che lo raffiguravano insieme a giovani allievi in tempi più recenti. Compreso l’intento “scenografico” di Louis, Dan gli scattò distrattamente una foto con alle spalle la teca. Il ragazzo sembrava adesso soddisfatto e pronto a scusare Dan per l’incriminata domanda che gli aveva posto prima di correggere il tiro. Si salutarono cordialmente e Dan uscì e si allontanò pensando di aver fatto un bel buco nell’acqua. “Ma cosa speravi di trovare, stupido…” si disse fra sé allontanandosi dall’abitazione. Non sapeva di avere già con sé la soluzione di tutto l’enigma.
Tornò alla macchina, parcheggiata poco lontano e arrivato ad avviare il motore questo emise un tossicchiante singulto meccanico e non volle saperne di accendersi. Tentò più volte, ma senza esito. Batté con rabbia i palmi delle mani sul volante imprecando ad alta voce… “Ci mancava solo di rimanere bloccati a Black Horse…” ringhiò infine. Stette lungamente seduto sul sedile dell’auto, ripensando a quanto poco senso avesse avuto la sua condotta da quando aveva cominciato a farsi suggestionare da quei maledetti incubi. Ma c’era qualcosa che gli tornava in mente a più riprese, simile a un sentore e a un’intuizione, un dettaglio forse, qualcosa che aveva visto e non riusciva a ricordare, ma la sua mente aveva registrato quasi a livello subliminale. Associava questo sentore a uno dei sogni, ma non sapeva il perché… Si mise a piovere, aveva lo sguardo fisso e svuotato rivolto al parabrezza su cui si schiantavano grosse gocce formando fitti rivoli. Nutriva la sensazione che quel dettaglio riguardasse la persona di Louis… Forse qualcosa che aveva indosso? Prese il cellulare e visualizzò la foto che aveva scattato, niente di rilevante: solo la figura di Louis con quella sua aria da gigante bamboccione… Poi vide una macchia verde screziata di giallo, alle sue spalle, e l’immagine del sogno riemerse in lui vividissima: lo stemma… Lo stemma che aveva sognato di recente; ingrandì la foto e con le dita dilatò il particolare giallo-verde… Lo stesso stemma che non aveva mai visto prima del sogno, su di una T-shirt sportiva - c’era anche quello che presuppose essere il nome dell’istituto in cui aveva studiato Louis e della cui squadra aveva fatto parte. Non poteva essere un caso se aveva sognato lo stesso emblema e capì al volo che le sue ricerche non dovevano finire lì, che in qualche contorto modo lo spettro di Gloria lo conduceva con cogenza al fratello… Forse proprio alla sua casa. Decise che avrebbe pernottato a Black Horse e che avrebbe dovuto tornare in casa di Louis e perlustrarla quando lui non fosse stato dentro. E avrebbe anche seguito ben nascostamente i suoi spostamenti se si fosse reso necessario.
Scese dall’auto, senza aver cura di ripararsi dalla pioggia battente, aprì il bagagliaio e ne trasse un cric, un cappellaccio da pescatore di quelli color avana, un vecchio binocolo e una grossa coperta. Poi pensò che vestito com’era risultava troppo riconoscibile e frugò ancora nel bagagliaio fino a quando non rinvenne una logora borsa di tela, all’interno della quale v’erano due scarpe da ginnastica e una vecchia tuta sportiva risalenti al periodo in cui seppur con riluttanza aveva seguito l’invito di Laura a fare un po’ di palestra per riguadagnare la vecchia forma perduta… Aveva resistito due settimane e poi piantato tutto, e quella borsa era rimasta dimenticata lì, colma dei panni sporchi da chissà quanto tempo. Decise che quell’abbigliamento sarebbe stato meno appariscente. Tornò poi nell’abitacolo della vettura, aprì il cassettino del cruscotto e ne estrasse un paio di occhiali da sole. Era pronto.
La porta d’ingresso del motel era chiusa con un catenaccio robusto ma mal ridotto e parzialmente cedevole; e nonostante questo Dan impiegò del tempo per scassinarla col cric. Aveva avvolto il pesante arnese con un panno per attutire il rumore dei colpi riuscendo infine nell’intento senza attirare l’attenzione del vicinato. Erano le 23 e tutto il quartiere taceva, la pioggia continuava a scendere copiosa. Quando entrò lo aggredì un forte odore di muffa misto ad altri sentori tutt’altro che gradevoli. L’impianto di illuminazione naturalmente era fuori uso; selezionò la funzione torcia dal cellulare e lo usò per farsi luce. Era tutto sgombro da qualsiasi tipo di mobilio, attraversò la sala d’ingresso costeggiando un bancone polveroso e tarlato, crivellato dai molti fori dei piccoli parassiti, e si condusse attraverso un lungo e claustrofobico corridoio le cui pareti portavano le umbratili tracce rettangolari dei quadri che un tempo avevano dovuto tappezzarlo e le quali spiccavano di un colore più chiaro del resto delle pareti. Il motel era perfetto per spiare la casa di Louis e i suoi movimenti. Salì le scale alle quali portava quel budello angusto e dopo aver perlustrato più di una camera in cerca dell’appostamento migliore, si sistemò infine in una stanza al primo piano, la cui vista dava sulla sua proprietà di Louis; estrasse dallo zaino il binocolo e lo pose sul davanzale in legno dell’unica finestra della camera. Tutto era ricoperto da uno spesso strato di polvere, la carta a parati era logora e ingiallita, chiazze di umidità e muffe ricoprivano il soffitto. Stese a terra la coperta, posò lo zaino alla sua estremità e vi si distese con la testa poggiata su quello. La notte non riuscì a prendere sonno per lunghe ore, quel luogo era pieno di rumori sinistri, lungo le intercapedini si sentiva il frusciare dei topi e il ticchettare delle loro alacri zampette. Poté sentire anche dei colpi ovattati, sordi, ma senza evincerne la provenienza, e si convinse che forse erano solo frutto di autosuggestione. Si svegliò alle prime luci del mattino, con gli arti anchilosati e un lieve mal di schiena. Ricordava di essersi addormentato molto tardi. A differenza delle volte precedenti non rammentava affatto cosa avesse sognato. Si spogliò e rivestì in tuta, calcò il cappello sulla testa e mise in tasca gli occhiali da sole. Preso il binocolo cominciò a osservare attentamente le finestre della casa: precisamente le due presenti sulla facciata. Una si apriva sulla sala, l’altra sulla stanza di lato. Sul vialetto, di lato alla rimessa, era parcheggiato un furgoncino di colore blu: Dan ne evinse che Louis doveva essere in casa. Osservò per un paio d’ore attraverso il binocolo, ma le due stanze visibili rimasero vuote. Decise di fare una pausa per riposare lo sguardo, ma proprio in procinto di abbassare il binocolo, vide comparire Louis in sala, aveva in mano una borsa di cuoio nero. Lo vide posare la borsa al centro della sala, poi accadde qualcosa di curioso: sparì dalla visuale della finestra come se si fosse accosciato, schiena eretta, per raccogliere qualcosa sul pavimento. Adesso vedeva solo la sua testa sopra l’orlo inferiore della finestra, ma sparì subito anche quella. Dan aspettò che lui si rialzasse, passarono molti minuti ma non lo vide tornare nella traiettoria della sua visuale che la finestra incorniciava. Non sapeva cosa pensare. Si sentiva stremato dopo la notte quasi insonne. Abbassò il binocolo, si mise seduto a terra, spalle alla parete, e scivolò piano piano nel sonno che gli era mancato la passata notte. Quando si risvegliò e riprese il binocolo erano trascorse due ore circa e notò che il furgoncino non c’era più. Decise che in assenza di Louis si sarebbe intrufolato in casa e l’avrebbe perlustrata attentamente: era un rischio, ma si sentiva di correrlo. Uscì dal motel per raggiungere la macchina, che era parcheggiata poco lontano. Aprì il bagagliaio e da una cassetta degli attrezzi trasse del fil di lega e una pinza; Tagliò un piccolo tratto di filo e lo modellò a mo’ di chiave sperando di riuscire a usarlo per aprire la porta d’ingresso della casa. Poi prese un piede di porco, più rischioso da adoperare, ma costituente un’alternativa. Pioveva copiosamente dal giorno prima e il vicinato sembrava non costituire un intralcio, erano tutti nelle loro case, fatta eccezione per un gruppo di ispanici, poco lontano, che non curanti della pioggia giocavano a calcio in un cortiletto.
Si guardò ancora intorno per maggior sicurezza e risalì infine il vialetto. Tentò di usare il suo passe-partout improvvisato preparandosi allo smacco di non riuscire in niente. Ma dopo diversi tentativi sentì scattare la serratura e la porta si aprì senza intralcio. Penetrò in sala chiudendosi la porta d’ingresso alle spalle. Raggiunse il punto della sala in cui aveva visto scomparire Louis dalla propria vista. Era il centro di essa, tra le poltrone e il divano. Poi notò la borsa nera, proprio sul tappeto, e l’aprì senza esitare, il contenuto non poteva rimanere inosservato: v’erano siringhe e fiale che Dan evinse fossero di morfina, sottili bisturi, tamponi, pinze e altri arnesi chirurgici. Improvvisamente sentì un tonfo sordo ma non ne capì la provenienza. Gli ballava il cuore… Seguirono altri colpi attutiti e sentì vibrare lievemente il pavimento sotto i piedi. Si distese a terra con l’orecchio sinistro premuto contro il tappetto e sentì come uno stridulo richiamo ovattato. Si alzò e scostò via il tappeto, quello che vide era l’andito alla fine delle sue ricerche: v’era una botola sul pavimento, che il tappeto era adibito a nascondere probabilmente. Forzò la serratura col piede di porco e aprì la botola. Un odore malsano lo aggredì alla gola ed ebbe un paio di conati a vuoto per il disgusto. Accese la torcia del cellulare e intravide delle scale. Le scese e quando fu all’interno di quella che era una specie di taverna, notò subito che le pareti erano state imbottite di materiale insonorizzante. Portò un fazzoletto al naso e alla bocca per il fetore che era insopportabile, poi vide l’orrore: in un angolo illuminò dei secchi colmi di feci e vomito e in quello opposto una ragazzina legata ad un letto che gemeva e emetteva suoni orribili. Era vestita di una sola canottiera chiazzata di macchie brune di sangue e di vomito rassegato. Di lato al letto, a terra, c’era l’asta di una flebo con un flacone di vetro in frantumi; la ragazzina era riuscita a liberarsi una mano dalle strette corde e nel cercare di liberarsi del tutto doveva averla rovesciata... Aveva ancora l’ago in vena. Dan si lanciò a liberarla e vide con orrore segni di bruciature e tagli su tutto il suo corpo, mentre le gambe presentavano grosse piaghe da decubito: doveva essere rimasta legata in quella posizione da moltissimo tempo. La prese in collo e quando lei spalancò la bocca per emettere suoni, vide con orrore che le era stata tagliata la lingua. Risalì le scale come una furia. Lasciò tutto com’era e chiamò la polizia per farla intervenire sul luogo di quello scenario raccapricciante. “Salvala,” aveva detto lo spettro di Gloria: “la devi salvare!”
Louis aveva ripetuto per coazione le orribili, ferali gesta sadiche cui suo padre l’aveva costretto ad assistere nell’infanzia, qualcosa in lui si era incrinato e l’insania lo aveva condotto a ripetere gli stessi rituali, prendendo idealmente il posto del padre che aveva perduto ma che era stata la sua unica guida, e adesso lui stesso impersonava con un guadagnato senso di onnipotenza e il diritto all’ultima parola sul destino delle sue vittime. La polizia riuscì ad accertare che quella piccola creatura che Dan aveva tratto in salvo, era solo l’ultima di una serie di sue vittime delle quali era stata denunciata la scomparsa negli ultimi tre anni, in quella comunità sonnolenta e apparentemente integerrima.
Passarono mesi dall’accaduto, e i vecchi incubi erano ora per Dan solo un ricordo… Un’unica apparizione era tornata a trovarlo ed era sempre Gloria, ma non più bambina, la bambina ferita che era stata, nelle sembianze invece di una splendida ragazza vestita interamente di bianco e dal sorriso luminoso e gli occhi colmi di gratitudine. Salvando quella piccola vittima dell’insania del fratello di lei, Dan, in qualche modo, sentiva di aver slavato Gloria e di averla liberata dalle annose catene della sua infanzia.
Di Massimo Triolo
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