08 Dicembre 2022
La "prima" alla Scala di Milano, rappresentazione del Boris Godunov di Musorgskij diretto da Riccardo Chailly; celebre ed unica opera interamente terminata dal compositore, tratta dall'omonimo dramma di Puskin. Se sia stata una sottile scelta politica per dare un segnale di distensione a Mosca è arduo saperlo; se così fosse farebbe ben sperare in un buon senso latitante ormai da decenni. Già il significato politico (e progressista) dell'opera ne fece il successo più che la musica in sé, pur da più parti considerata un capolavoro della scuola russa. Musorgskij, personaggio tormentato, depresso ed afflitto da un alcolismo che lo porterà alla morte a 42 anni, resta forse più meritoriamente noto per le sue composizioni addirittura più tendenzialmente macabre, come la ancor più celebre "Una notte sul Monte Calvo", "La stanza dei bambini" oppure i "Canti e danze della morte". Il Boris Godunov, uscito nel 1869 e censurato dalle autorità (e non solo zariste) fino ad essere rappresentato in pompa magna solamente nel 1928, fu molto criticato dai compositori russi coevi, pur ammiratori di Musorgskij, e forse a buon titolo. In realtà, a parte taluni spunti di modernità timbrica molto in anticipo sui tempi, e al netto dell'impatto scenico e di ambientazione storica, a meramente sentirlo, ad esempio su disco, ecco, diciamo pure che farebbe addormentare anche un branco di lupi siberiani infoiati calati dalla tundra in cerca di cibo. Eh sì, signore e signori, inutile fare i saputoni. Il Godunov, e si fottano i benpensanti, è maledettamente nojoso, è di una noja quasi quasi esiziale, se non fosse che in fondo tutti quei recitati e quelle parti lagnose possano conciliare saporosi sonnelli, che male non fanno mai, se non alla guida di autoveicoli, per cui se ne sconsiglia l'ascolto se in viaggio in autostrada. Ecco, pur senza negarne talune doti, però sai che palle, se non hai una poltrona comoda e ben imbottita a teatro o sul tuo divano, con tanto di plaid sulle zampe. Ergo la scelta per la stagione scaligera ha tutto il senso che si vuole, ma per sentire un Musorgskij veramente sul brillante andante bisogna rivolgersi ai già citati titoli o al pur conosciuto "Quadri di un'esposizione", quasi coevo al Godunov, ovvero del 1874. Mooolto meglio, mooolto molto meglio, si sappia.
Quindi anticipiamolo pure; gli applausi a fine rappresentazione sono ormai facili da ottenere: le opere portate in scena oggidì, e non solo alla Scala, sono perlopiù dei grandi classici, pallosissimi o meno che siano, e quindi per un giudizio ci si concentra sugli interpreti, sulla maestrìa orchestrale e su regia e scenografia; quest'ultima semplicemente neanche brutta, ma banalmente sciocca, come tutte le cafonate moderne che vogliono attualizzare ciò che attuale non è, ovvero una messa in scena della seconda metà dell'ottocento, con una musica di quell'epoca. E difatti, nella imperitura disfida tra apocalittici ed integrati di umberto-echiana memoria, gli integrati vorrebbero attualizzare LAQUALUNQUE (e lo fanno, Iddìo li stramaledica); anche le tombe di Tutankhamon, la Ara Pacis, i borghetti medievali pedemontani ancora intonsi, i madrigali di Orlando di Lasso e di Monteverdi, e tra un po' pure Hey Jude dei Beatles, che tra qualche anno verrà da qualcuno violentata con mise en scène di paillettes genderfluid, se vogliamo un po' come fecero, mutatis mutandis, negli anni ottanta i Rondò Veneziano, gruppetto italiano che si divertiva allo stupro con bonghi elettronici su base di incolpevoli ed attoniti Boccherini e Vivaldi. Deus vult, sta disgrazia, evidentemente. Ma transeat.
Quindi, a parte la botta de sonno in teatro o davanti allo schermo televisivo, complice anche la fredda giornata invernale a riscaldamenti ridotti per la crisi, niente da dire su maestro, orchestra e soprattutto i cori di grandi e piccini, davvero niente male (sulle pronunce in russo magari qualche ingenuità, dicunt). Ma la cosa imbarazzante, e questa resterà molto più del ricordo dello spettacolo sul palcoscenico, è stata uno dei punti più bassi raggiunti dal nostro vituperabile paese, senza che nessuno abbia aperto bocca in proposito, se non per sdilinquimenti da dodicenni in calore, in ennesimo fremore da ennesimo bacio della pantofola porporata.
Sul palco reale del teatro, eccola una nutrita schiera di alte personalità con consorti e familiari, su varie file, ed in prima, da sinistra a destra: il sindaco di Milano Salah Ad Din, la presidente della sCommissione europea von der LeyDen, il presidente della repubblica pazzarella, il presidente del Senato Ignazio-che-strazio, la premier Georgette Cocomeroni in grazioso abito nero a nude spalle, inusuale per la sua solitamente castigata figura.
A latere dei potentoni: i palchi dei più abbienti. Orbene invece in basso, in platea, le poltroncine dei meno vipposi ma comunque fortunati, a parte alcuni cialtronazzi sprovvisti di Dinner jacket, (o Smoking come impropriamente si chiama in Italia) in giacca e cravatta lunga crassamente inadatte alla occasione, testimonianza di una sciatteria oltre la soglia di nausea. Le signore invece (come quasi sempre meglio vestite dei maschi malvestiti) quasi tutte piuttosto eleganti e forse più sobrie delle ultime scorse edizioni, risibili farse di vari provvedimenti e di mascherine pandementi escluse, ovviamente.
Ed eccoli, a miracol mostrare sul palco che fu dei Savoia (anche e soprattutto quei pochi buoni) i protagonisti delle stanzette dei bottoni moderni. Un sindaco noto per i favori agli amici oltre che per essere il simbolo della sinistra più falsa e plutocrate del mondo, in una Milano record di inquinamento, sporcizia, criminalità dilagante, pessima qualità della vita e costi esorbitanti di tutto, ma lui ci ha le calzette colorate e quindi piace ai babbei inurbati al calduccio. Una leader europea che oltre agli scandali e alle inettitudini in patria che le son valse la somma promozione, col marito coinvolto nella greppia del secolo, quella vaccinale, nel rapporto con l'Italia vanta un primato secondo solo alla ancor più famosa Frau MerDel: la costante pratica di fottere il nostro paese su qualsivoglia agenda. Un imbalsamato inquilino del Quirinale su cui non si può che tacere per non incorrere in sanzioni di stampo russo o iraniano. Un presidente del Senato con giusto qualche trascorso un po' originale, diciamo così. Una Presidente del Consiglio il cui primo provvedimento di rilievo è stato legiferare contro la nota piaga d'Egitto dei rave party (notoriamente in Italia ce ne è uno ogni 24 ore, si sa); sancendo che qualsiasi riunione di più che una manciata di allegroni, fosse pure di un convegno di COSPLAYERS DI FORTNITE, diventa di fatto illegale, salvo poi riscrivere la norma daccapo per manifesta stupidità... e il cui secondo provvedimento di rilievo è togliere il sussidio ai poveri in un paese dove i poveri sono ormai 15 milioni su 60, minacciando addirittura di abolire il sussidio stesso, mentre tutta Europa, che quei sussidi prevede da oltre 50 anni, i sussidi li estende e li aumenta, pur non avendo cataclismi di povertà paragonabili a quelli di questo sventurato paese di analfabetoidi rintronati. Eh sì, rintronati e senza nemmeno più la scusa di pensare solo al calcio, ormai anche quello declassato da paese leader a paese da foresta interna della Papuasia. Il paradigma del tramonto di una nazione fintamente lieta di essere triste, povera, inetta ed eternamente guidata da voraci predoni all'inseguimento di perenni aumenti di stipendio, quando non di mazzette sempre più milionarie e sempre più legalizzate. E il terzo grande provvedimento proposto da Cocomeroni? Un bel taglio alle intercettazioni ai mafiosi. Sublime.
E cosa fa il pubblico della Scala, nel luogo che vide lo scoppio dei moti del Risorgimento? Un moto di dignità, magari fischiando i propri carnefici che tanti bei risultati stanno producendo, e neanche dal nuovo governo, ma da oltre trent'anni? Macché, non diciamo bischerate: un bell'applauso ai cari potenti vestiti a festa! Hai visto mai che il nostro piangere fa male al Re! Dai con un bellissimo applauso di qualche minuto, persino alla von der Deutschen, il gentile popolo che ha preteso la rovina del nostro in cambio del suo tentativo, perennemente fallito come dai tempi del Barbarossa e di Zio Adolfo, di sgovernare il vecchio continente a tassi usurari. Qualche fischio, mentre questi che guadagnano 50K al mese sono incapaci persino di stabilire un prezzo decoroso di gas e luce per le moltitudini di stronzi che guadagnano 1K al mese, se va bene? No, macché, per carità. Tutti ad inginocchiarsi a baciare la mano al padrone, manco fossero tutti brutte copie di Donna Raffaella Pavone Lanzetti, appena presa a sberle da Gennarino Carunchio.
È così siore e siori: il nostro è il paese della commedia all'italiana, mai censurata. Altro che Boris Godunov. Siamo da sempre intrappolati in un film della Wertmüller. Purtroppo assai più spesso intrappolati, piuttosto che in "Travolti da un insolito destino", in un ben più cupo e tragico "Film d'amore e d'anarchia", dove il povero Tunín, anarchico impegolato con due puttane romantiche alla vigilia di un tentativo di attentato a Mussolini, non sapendo come ribellarsi al potere finisce ammazzato in galera dai fascisti. Povero Tunín, ammazzato a bastonate. Ecco, almeno lui ci aveva provato. Adesso di Tunín non ce n'è mica più. I COSPLAYERS di FORTNITE manco sanno più cosa sia provarci, se non col joystick in mano, mentre i plutocrati esausti battono le mani al padrone. Vale davvero il finale di quel film, che trascrive una citazione dell'anarchico Errico Malatesta:
«Voglio ripetere il mio orrore per attentati che oltre che essere cattivi in sé sono stupidi perché nuocciono alla causa che dovrebbero servire... Ma quegli assassini sono anche dei santi e degli eroi... e saranno celebrati il giorno in cui si dimenticherà il fatto brutale per ricordare solo l'idea che li illuminò e il martirio che li rese sacri».
E per il momento, invece, giù applausi.
Di Lapo Mazza Fontana
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