10 Dicembre 2025
I telegiornali si sono ben guardati dal dare la notizia e si capisce: la coda di paglia del potere è pesante e non smette mai di frusciare, perché il potere non muore mai davvero, è fenice insanguinata, si rigenera, cambia i suoi colori ma resta potere, paranoico, feroce Inconfessato, perché il potere si nutre di misteri e teme solo la luce, la chiarezza. Il potere è nemico della verità: quella che inseguiva Sergio Flamigni, mancato oggi a 100 anni suonati e la sua scomparsa è una di quelle notizie che una democrazia seria non dovrebbe permettersi di trascurare, perché Sergio alla democrazia italiana ha dato moltissimo senza chiedere niente in cambio e ricevendo spesso amarezze, ingiustizie, irriconoscenza. Quello che sappiamo delle trame criminali della Prima Repubblica gli si deve in non trascurabile parte, per non dire delle oscene tortuosità legate alla P2 e, più specificamente, all'affaire Moro che resta torbido a distanza di quasi mezzo secolo. Osteggiato, ignorato, ma da tutti saccheggiato, Flamigni dopo la gioventù partigiana e la formazione comunista nell'orbita di Berglinguer, che molto lo stimava, aveva sfruttato la sua esperienza parlamentare per approfondire i misteri italiani. Da quella posizione privilegiata, sfruttando il libero accesso a fonti primarie, si era disposto a costruire, con pazienza, con amore per la politica e per il Paese, una base documentale destinata a sfociare in ricerche sempre più meticolose e approfondite; decisive per la conoscenza della storia recente dell'Italia inserita nel contesto atlantico. Abbandonato l'impegno politico attivo, si era dedicato esclusivamente e senza respiro al suo impegno di storico in compagnia della moglie, Emilia Lotti, che con Sergio condivideva tutto: la fede politica, la guerra partigiana, la missione della ricerca, mai viste due anime così saldate in un obiettivo definitivo.
Cossiga, fallimentare ministro dell'Interno durante il sequestro Moro, in seguito “promosso” al Colle, lo definì pubblicamente un cretino: querelato, perse la causa e Flamigni utilizzò il risarcimento per donare al Paese, alla sua democrazia malata, un archivio di inestimabile valore storico, documentale, politico. Umanamente era un comunista atipico: gentile, mite ma determinatissimo, spiritoso, tollerante, quel che si dice una persona specchiata, pulita, generosa, appassionata: potete credermi, l'ho conosciuto bene, ho anche collaborato con lui. Non era un fazioso, era un appassionato della verità. Quella verità che per tutta la vita si è costretto ad inseguire fra mille ostacoli, se si pensa che ancora oggi le verità ufficiali su Moro si debbono alla memoria dirottata dei suoi aguzzini e assassini, da Moretti alla recentemente scomparsa Brachetti, da Morucci alla Faranda. Un castello di bugie che Sergio non si è mai stancato, davvero fino all'ultimo, di picconare: e, seppure il suo ostinato, tenace, nobile lavoro non potesse avere speranza di trionfo, è comunque riuscito ad ottenere non pochi risultati disperdendo quelle versioni menzognere, combinate dai terroristi in combutta coi servizi segreti. Come quando insisteva sul quarto uomo nel covo di via Montalcini, isolato, perfino sbeffeggiato da tutti: “Quarto uomo, sei solo un fantasma” titolava l'Espresso infarcito di giornali sodali dei brigatisti. Poi, quando emerse il ruolo di Germano Maccari quale “fantasma” in carne ed ossa, quarto uomo fin troppo concreto, nessuno chiede scusa e nessuno gli rese il merito che gli spettava. Ma Flamigni non se la prendeva più di tanto, il suo unico interesse stava in quell'implacabile lavoro di scavo, da talpa delle istituzioni. Che gli debbono molto anche se non glielo hanno mai riconosciuto. Hanno tentato di fermarlo in tutti i modi, principalmente, ed era la strada più scontata, per via giudiziaria: nessun giudice è mai riuscito a condannarlo, tutti i processi si sono fatalmente arenati contro gli scogli della serietà, della fondatezza, di una veridicità destinata a trasformarsi in verità accertata, e proprio grazie al suo lavoro di ricerca.
Sergio Flamigni, nato a Forlì nel 1925, era cresciuto nel partigianato romagnolo, dedicandosi fin dall'immediato dopoguerra ad impegni sindacali e politici. Impegni seri, sfiancanti, svolti sempre col sorriso e con una dedizione non da apparatchik ma da uomo tra gli uomini, capace di rispetto e di empatia verso chiunque. Un tratto signorile, che disarmava i suoi avversari: nessuno ha mai ricordato una parola meschina o volgare da lui. Parlamentare del Pci dal 1968 al 1987, operò nelle Commissioni parlamentari d’inchiesta sul caso Moro, sulla loggia massonica “P2” e Antimafia. Il suo lavoro tenace e scrupoloso in merito al caso Moro rappresenta un patrimonio fondamentale di memoria storica, ed ha contribuito a chiarire diversi aspetti della vicenda più torbida e distorta della Repubblica, oltre a fornire un impulso instancabile alle indagini originando sempre nuovi procedimenti di inchiesta da parte della magistratura. Il suo libro più celebre è il fondamentale “La tela del Ragno. Il delitto Moro”, ripubblicato in una nuova edizione, aggiornata ed ampliata, nel 2003. Ha inoltre pubblicato: “Trame atlantiche. Storia della Loggia p2” (1996); “Il mio sangue ricadrà su di loro. Gli scritti di Aldo Moro prigioniero delle Br” (1997); “Convergenze parallele” (1998); “Il covo di Stato” (1999); “I fantasmi del passato. La carriera politica di Francesco Cossiga” (2001), “La sfinge delle brigate Rosse” (2004) sulla enigmatica figura del capo brigatista Mario Moretti, originario di Porto San Giorgio, quindi altri testi sui covi utilizzati dai brigatisti, sulle circostanze del rapimento e della prigionia di Moro: lui scriveva, svelava, dimostrava, il potere coi suoi scriba, le sue fonti ufficiali, ma avvelenate, tentava di smentire, di distorcere, lui tornava alla carica rintuzzando e aggiungendo nuovi retroscena, collegando aspetti apparentemente incompatibili, portando alla luce nuove situazioni, denunciando manovre di copertura. Inevitabilmente passato in fama di dietrologo, ha dimostrato che la dietrologia non è complottismo ma un modo rigoroso di fare inchiesta, portando allo scoperto “quello che c'è dietro” e che, per comprensibili ragioni, deve restare dietro, soffocato, inaccessibile. Indicibile.
Flamigni ha continuato fino a novant'anni a indagare, catalogare, scrivere: il suo archivio nella casa di Oriolo Romano, successivamente trasferito nel quartiere Garbatella di Roma sotto la guida della storica collaboratrice Ilaria Moroni, è uno sconfinato tesoro, imprescindibile ed inquietante (e a disposizione di tutti, a libera consultazione), per orientarsi nel torbido dei misteri italiani. Tutti i libri di Sergio Flamigni, una trentina in totale, sono usciti per Kaos Edizioni e risultano tuttora facilmente reperibili anche se la casa editrice è stata dichiarata fallita nel 2022. Andrebbero compulsati integralmente, ma un ottimo sunto del suo enciclopedico lavoro è comunque condensato nell'ultimo volume, “Delitto Moro, carte nascoste”: da qui si può partire per inoltrarsi in un inferno di misteri italiani, dolorosi e spaventosi, indispensabile per capire il Paese nel quale siamo cresciuti e, senza verità, invecchiati. Flamigni era un galantuomo preciso, mai pedante: lavorare con lui aveva il sapore delle cose fatte bene, dell'onestà intellettuale, della pazienza che premia. Ti sentivi utile a questa Repubblica pur fatta di ombre e mostruose ombre. Un uomo fragrante. Andatelo a cercare su youtube: mentre sistema il suo monumentale archivio, faldone dopo faldone, ancora passati i novanta, anche quando la vista, sforzata oltre ogni limite tollerabile, lo aveva infine abbandonato, sentirete già di volergli bene come istintivamente la si vuole a un uomo per bene, un uomo di altri tempi nell'accezione più nobile.
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