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"La libertà innanzi tutto e sopra tutto"
Benedetto Croce «Il Giornale d'Italia» (10 agosto 1943)

Il disastro spagnolo non è colpa del clima ma della politica, della sua mutazione da potere operativo a intermediazione finanziaria

Nel nostro tempo liquido, che vuol dire inafferrabile, che vuol dire invivibile, siamo tenuti alla dipendenza da ciò che non esiste: balle, propagande, misticismi apocalittici. E intanto si muore.

05 Novembre 2024

Alluvione Valencia

I divulgatori climatici, quanto a dire il nulla, possono dire quello che vogliono, propalare le palle che vogliono ma è un fatto che a Valencia hanno buttato giù una diga, evitato le opere di contenimento, si sono disinteressati delle conseguenze del folle proposito di ripristinare la natura al livello preindustriale del Medio Evo e adesso i morti non si contano. I parassiti ambientalisti possono gridare alla fine del mondo, tutti compiaciuti per l'ennesimo disastro così ci marciano, ma la loro protesta contro il capitalismo è scentrata: non contro il capitalismo delle cose e delle opere dovrebbero prendersela, ma contro la finanza che ha sostituito la produzione, alla quale si sono convertiti tutti, per prima la politica ridotta a ruolo di intermediario legale o amministratore di questo nuovo ultraliberismo che campa di allarmi, di menzogne e di omissioni. Nel disastro spagnolo tutto è terribilmente chiaro, evidente: il catastrofismo esorcistico che risparmia sull'amministrazione e lucra sul mercato degli incubi e dei miraggi, la sistematica distorsione della realtà, sostituita dalle leggende quali l'aumento degli eventi naturali indotti dai cambiamenti climatici, smentito da tutte le rilevazioni degli ultimi 200 anni, la progressiva disabitudine e quindi incapacità a provvedere secondo lo slogan “non spetta a noi, ci deve pensare l'Europa”. Quello zuccone di governatore che ridimensionava, in base a chissà quali elementi, l'allarme appena dichiarato dal Dipartimento per le emergenze. La Catalogna come l'Emilia Romagna: perché si sono eliminate o trascurate le opere di contenimento, dighe, argini, vasche, e dove sono finiti i soldi già stanziati per farle o potenziarle? Nessuno risponde e dopo un po' quei pochi smettono di chiedere. Il resto del lavoro sporco, sporchissimo lo fa la comunicazione che sarebbe la pubblicità militante che ha sostituito l'informazione ed è a sua volta comperata dalla finanza che delega la politica a gestirla: se sei troppo indiscreto, se osi raccontare quello che è sotto gli occhi di tutti, siano disastri o disservizi, il coacervo politico industriale reagisce fulmineo: toglie la pubblicità, taglia i pubblici sussidi. Ragione per cui si procede con la rimozione sistematica di ogni consapevolezza.

Disastri ambientali o sanitari, è la stessa cosa: i grandi allarmi, le grandi emergenze consegnate all'eternità, cicliche, secondo la formula della Baronessa Siringa, “permacrisi”, una crisi di matrice e consistenza ignota ma destinata a perpetuarsi senza sosta, vengono alimentate dai divulgatori del nulla, climatologi e virologi che stanno agli scienziati veri come Wanna Marchi a Gesù Cristo. Solo che il destino di Gesù Cristo è quello di venire sacrificato al posto di Barabba e la gente, per non sbagliare, dice: non si sa mai. E si lascia convincere a fare puntualmente la scelta sbagliata.

La scienza come magia e cattiva magia, la scaramanzia al posto della logica, la suggestione in luogo della ragione. E il servilismo invece della dignità. In Spagna hanno preso a bastonate il premier Sanchez, un fanatico che ha completamente rimosso la gestione del reale a tutto vantaggio della proiezione mitologica: concentrato sul peggio dell'ideologia woke, sui cambi di sesso fantasma, sull'anagrafe ballerina, sul clima da difendere impedendo ai viventi di vivere, ma non proteggendoli, anzi lasciandoli alla mercé dei temporali e dell'inconsistenza governativa. La ispanica gente non se l'è presa col Dio delle alluvioni ma con questo primo ministro farneticante che, alla prima randellata, è fuggito; almeno i reali han trovato la faccia di mostrarsi, di condividere il fango con la plebe atterrita. Da noi non sarebbe mai successo, da noi le maledizioni contro il potere si recitano come giaculatorie da social, a debita distanza. In Emilia Romagna continuano a succedere catastrofi come quella spagnola ma la gente appena spunta un potente lo applaude, gli chiede soldi per la famiglia, sono riusciti ad applaudire perfino quella ceffa della Baronessa insieme alla nostra Giorgia Meloni. Come se la rovina emiliano-romagnola non dipendesse dal malgoverno di sinistra in totale aderenza alle farneticanti politiche ecologiche europee sposate da una premier di destra. Ne esce una conferma desolante: non c'è salvezza, comunque la metti. Il privato che prende in appalto le opere non è granché, anzi è spesso criminale, ma gliele appalta un settore pubblico fellone, che cerca di delegare a più non posso sapendo che se prova direttamente a fare qualcosa i risultati sono perfino peggiori. Poche sere fa stavo ad una trasmissione televisiva e c'era uno di questi professorini a sinistra dei centri sociali col coraggio di dire che la deriva spionistica dipendeva dalla privatizzazione dei servizi di sicurezza. Tesi strampalata che piace a chi non ne sa niente: la privatizzazione è l'effetto, non la causa, di un Stato che per primo spia e si spia, si sputtana in tutti i suoi corpi ed apparati. Come quella giudice che, a capo di istituzioni di controllo, mandava a controllare il marito: colta sul fatto, se l'è cavata mettendosi in pensione anticipata. C'era pure un avvocato dalla faccia paciosa che ostentava il suo livello di competenza, forse elevata ma miope: non capiva che la questione non è tecnica, è psichiatrica come lo sono tutte le faccende indotte dalla globalizzazione senza corpo, dalla finanza che ha preso il posto di tutto: cose, servizi, leggi (“Ce ne vogliono di più? Sì, ma anche di meno”), opere, organizzazione. Il professorino a sinistra di ogni sinistra delirava, “basta, consegnare i dati alle società americane”, quelle cinesi stava attento a non nominarle, e non si accorgeva del suo sovranismo tecnologico, del suo isolazionismo militare. Perché dire che ci vuole più tecnologia del controllo però fatta e gestita dallo Stato, vuol dire né più né meno più apparato militare, più strumenti per la guerra. Pubblico e privato si sono resi indistinguibili, sono un coacervo di poteri che si sorreggono e si confondono. Dire che “tutto deve essere pubblico” è senza senso stante la scomparsa delle distinzioni: gli industriali vanno nei parlamenti e nei governi, i politici finiscono a fare i mercanti, gli intermediari di business tra simili si tratti di armi come di vini o di segreti. La tecnologia travalica la legge, la finanza semplicemente la ignora o la compera come una pizza a domicilio. Le stragi ambientali o sanitarie o economiche o energetiche, chi le ha messe in pratica, la politica o l'industria? Entrambe, in modo inestricabile.

Ma che gli fa? Nel nostro tempo liquido, che vuol dire inafferrabile, che vuol dire invivibile, siamo tenuti alla dipendenza da ciò che non esiste: balle, propagande, misticismi apocalittici, come l'auto elettrica totemizzata per vent'anni da una informazione comperata in modo uniforme, che dall'oggi al domani è passata a spiegarci come e qualmente l'auto elettrica non aveva speranze. Così per il clima, per l'ambiente, per l'energia, per la salute, per tutto. E intanto continuiamo a morire.

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