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Benedetto Croce «Il Giornale d'Italia» (10 agosto 1943)

La depressione attraverso i secoli tra arte e scienza, dal genio dei poeti e dei pittori alle nuove cure della psichiatria moderna

Attraverso le vite di Van Gogh e Leopardi e le testimonianze dei pazienti di oggi, il Dottor Giuliano Albergo indaga la depressione come condizione umana universale, tra vulnerabilità, arte e possibilità di guarigione.

17 Ottobre 2025

La depressione attraverso i secoli tra arte e scienza, dal genio dei poeti e dei pittori alle nuove cure della psichiatria moderna

La depressione nell’arte dei maestri 

Due facce della stessa medaglia: da un lato, grave problema di salute pubblica globale e nazionale, con forte impatto economico e sociale; dall’altro, fonte di ispirazione per geni assoluti nel campo delle arti e della letteratura. Immaginiamo Vincent Van Gogh, uno dei pittori più noti e a cui guardiamo come fosse un nostro fratello disperato, che, per amore, decide di tagliarsi l’orecchio. Dopo l’automutilazione, finisce ricoverato in un ospedale psichiatrico e poi alla clinica per alienati mentali di Saint-Rémy, dove, accompagnato da un sorvegliante, poteva dipingere anche all’esterno del manicomio, realizzando quadri come La notte stellata. Molte volte, nella storia, la libertà, nei manicomi, è passata per l’arte. Chiusi negli asylums, gli uomini potevano evadere verso un cielo lunare come quello delle cose smarrite di Ariosto solo attraverso le proprie creazioni. Questo è il segno di ciò che il manicomio ha determinato di positivo: la luce riconquistata attraverso la creatività, la sofferenza che ha generato bellezza.  

L’arte libera dalla depressione che, tuttavia, la genera. E, così, appare evidente che il più grande poeta popolare e, insieme, il più amato, Giacomo Leopardi, sia stato un depresso grave, che ha vissuto con tormento i rapporti umani, specie con le figure femminili; ha sentito trasporto amoroso verso uomini e donne, è stato innamorato di Fanny Targioni Tozzetti e legatissimo ad Antonio Ranieri, da cui è stato poi umiliato proprio per un amore comune. Leopardi aveva un’alterazione mentale che lo condannava a vedere il mondo in una maniera melanconica, pessimistica, tragica, che però lo ha posto nelle condizioni di dire di più, di rivelare qualcosa che gli altri tengono dentro, di compensare quella minorazione, quella limitazione che è la malattia attraverso l’elevazione, lo slancio di un’opera che la incarnava.    

Cosa sappiamo della depressione oggi 

La depressione è una patologia complessa, multifattoriale e multideterminata. Se potessimo visualizzare il cervello di una persona depressa a livello cellulare e molecolare, ci troveremmo a tu per tu con una tempesta infiammatoria, accompagnata da un aumento del cortisolo, l’ormone dello stress. Osserveremmo una disregolazione dei neurotrasmettitori, cioè dei messaggeri chimici di cui i neuroni si servono per comunicare tra di loro. La plasticità dei neuroni, la loro capacità di svilupparsi e di ramificarsi, risulterebbe alterata. I fattori nutritivi del cervello, come il BDNF, sarebbero compromessi. Da che cosa è prodotto tutto questo? Nel caso della depressione potremmo dire, con una metafora, che “la genetica carica il fucile ma l’ambiente preme il grilletto”. I fattori biologici configurano una condizione di rischio, di suscettibilità a sviluppare la malattia, ma da soli non sono sufficienti a causarla. Pertanto, occorrono specifiche circostanze ambientali che agiscono e interagiscono su un terreno genetico preesistente: dipendenze patologiche, problemi familiari, difficoltà economiche, eventi di vita negativi, traumi, abusi, violenze.  

Che cos’è la depressione? 

Questo moto d’animo turbolento, amplificato, disfunzionale, che fa soffrire la persona e chi le è accanto? Certamente non è la tristezza comune, quell’emozione fisiologica che insorge quando qualcosa ci segnala una separazione o una perdita durevole (ad esempio, per un lutto, un fallimento o un obiettivo mancato). La tristezza “normale” va e viene; può diventare anche molto intensa, ma non impedisce di vivere. La tristezza depressiva non consiste tanto e solo nell’essere tristi, quanto nel non poter essere allegri. Sempre identica nel tempo, immutabile. Il passato è inadempienze, errori e colpe. Il presente è risentimento, rimpianto, nostalgia e disperazione. Il futuro è preoccupazione e abolizione della speranza. Il vissuto del depresso è cristallizzato, congelato; non consente al passato di scorrere, al presente di accadere e al futuro di divenire. È un vissuto stagnante ed eterno, senza tempo, fuori dal tempo, atemporale come la morte, negazione della vita. Il tempo-vita è cancellato dal processo patologico: per il depresso rimane il vuoto e l’esperienza di esso.

Soffrire, sentirsi impotenti, chiedere aiuto 

Insomma, un inferno, che riassumo in un acronimo di tre lettere: “S.I.B.”. “S” di Sofferenza, tanta sofferenza, tenebrosità, catastrofismo, svogliatezza. La parola “niente” inonda la vita di una persona depressa: «Non mi va di fare niente, non ho voglia di niente, non servo a niente». E, poi, arriva un’espansione di questo nulla, che è: «Perché vivere? Non si può vivere così. Non ho voglia di vivere così». Un nostro paziente, Bernardo, scrive:  

Ad oggi la cosa mi appare più pesante. La mattina mi sveglio con gli stati d’ansia e non ho voglia di alzarmi. Sul lavoro mi blocco e non riesco ad affrontare le varie situazioni. Appena tento di farlo mi prende l’ansia allo stomaco. Non ho voglia di lavorare e tendo a non farlo e questo mi fa sentire in colpa. Non riesco ad organizzarmi. Tendo a chiudermi e non comunico. Mi salgono le paure. Anche piccole cose, come andare a fare la spesa, mi fanno salire un po’ d’ansia. Non ho iniziativa e non ho voglia di fare le cose. L’umore non è buono, sono totalmente svogliato. Mi deprimo molto facilmente e non riesco a reagire. 

La sofferenza produce sempre un secondo linguaggio che è: «Non posso mangiare, non posso dormire, non posso lavorare, non posso divertirmi, non posso smettere di pensare». Ci si trova davanti a un’Incapacità, un’insufficienza, un’incompetenza. Quindi: “S.I.”. Un nostro paziente, Giuseppe, scrive: 

Mi sento molto triste e demotivato. La mattina quando mi sveglio non riesco a programmare la mia giornata. Sono stupido e pigro. Mi pesa ogni cosa, tutto sembra difficile e gli impegni della giornata diventano pesi insopportabili da portare. Passo il tempo tra tedio e senso di smarrimento, abbandonato sul letto che, all’inizio, sembra concedermi riparo dai miei pensieri ma che, dopo qualche minuto, diventa anch’esso insopportabile. Come poter uscire da quest’impasse? Perché ho questa tendenza, da due giorni, completamente verso la tristezza? Ho paura di non so che cosa e mi sento completamente perduto. 

E, alla fine, la lettera “B” di Bisogno. Domandi al paziente: «Perché è venuto da me?» «Perché ho Bisogno di lei». «Solo di me?» «No, ho bisogno anche di bere per dimenticare i miei dolori, ho bisogno di riempirmi di ansiolitici perché sono angosciato, ho bisogno di litigare, ho bisogno di suicidarmi». 

Il dramma dei suicidi legati alla depressione 

L’OMS stima che il 90% dei suicidi siano dovuti a disturbi psichiatrici e, di questi, il 60% siano dovuti a depressione. Dopo gli incidenti stradali, il suicidio è la seconda causa di morte in adolescenza, ma non sappiamo quanti incidenti stradali siano in realtà dei suicidi o dei tentati suicidi, soprattutto i “single-car accidents”. Abbiamo raggiunto la cifra di un milione di suicidi all’anno nel mondo; ogni 40 secondi c’è una persona che si toglie la vita. E, in questo tempo in cui ho scritto queste righe, c’è stata una serie di persone che si sono tolte la vita o che ci hanno provato. Perché, per ogni suicidio riuscito, ce ne sono 25 che vengono tentati, uno ogni 3 secondi. 

Una nostra paziente, Michela, scrive:

Dottor Albergo, faccio tanta fatica a scriverLe questa lettera. Sono giorni che sto malissimo, peggio del solito... forse peggio di sempre. Guardo fuori dal mio balcone pieno di fiori e penso che finalmente sia il momento giusto per andarmene... nessuno mi piangerebbe, meno che mai i miei familiari. Poi inizio a piangere, a tremare e piano piano, strisciando letteralmente me ne torno in casa. Ora sono sfatta ma lucida, non so se sono le medicine o la mia completa inutilità come essere umano o entrambe le cose a farmi stare così male ma io sto male e questa situazione deve finire. In un modo o nell’altro. Mi aiuti, per favore. 

In queste persone vi è una grande ambivalenza: non vorrebbero morire ma vorrebbero vivere senza la sofferenza che portano con sé. Frequentemente il paziente comunica dei segnali per essere aiutato; in primo luogo, a volte esprime l’idea di morte e dice frasi come: «Magari fossi morto, a cosa serve vivere, la vita non ha senso, vorrei addormentarmi e non svegliarmi più». A volte comunica l’intento suicidario, come Michela, che dice: «Ho intenzione di morire, voglio morire, voglio uccidermi». Non è affatto vero che, se lo dicono, non lo fanno. Molte volte lo dicono e lo fanno. E, prima di farlo, a volte lo dicono. Dunque, dobbiamo essere noi, tutti noi, a indagare.  

Tanto tempo fa si diceva che fosse opportuno non porre domande dirette sulle idee di suicidio poiché queste avrebbero potuto perfino instillare nel soggetto l’idea stessa del suicidio, ma oggi sappiamo che sono invece l’elemento preventivo principale. Perché la persona si lascia raggiungere da chi vuole esplorare quella sofferenza. Questo può aprire uno spazio di parola per confidarsi, per confessare il proprio dolore perché, magari, per la prima volta, la persona si trova davanti qualcuno che glielo domanda, che è in grado di sostenere questa tematica, di recepire qualcosa di molto intimo, che non ha mai rivelato a nessuno. Rapportiamoci in maniera umana, empatica, accogliente, preoccupata ma non spaventata, non giudicante; in particolare, evitiamo di esprimere il nostro disagio, la nostra contrarietà, la nostra disapprovazione («Come ti viene in mente di pensare una cosa del genere? Non pensi ai tuoi figli? Non pensi ai tuoi genitori?»), non frettolosa, non sfidante, non banalizzante, non minimizzante, evitando di dire cose quali: «Guarda avanti, pensa positivo, la vita è bella, avrai un’altra occasione». Chiediamogli: «Come posso aiutarti? Posso fare qualcosa per te? Che cosa è fonte di dolore per te? Che cosa pensi che possa alleviare questa sofferenza?». Perché qualcuno è tormentato da pensieri vaghi, altri hanno un progetto suicidario completamente pianificato e dettagliato, una visione realizzabile della loro morte. Un giorno, la madre di una mia paziente nota che sua figlia strappa un foglio da un’agenda su cui era solita appuntare i propri pensieri e lo getta via. Di nascosto, la mamma lo raccoglie dal cestino della carta straccia, lo rincolla e me lo manda: PERDONATEMI IO VI VOGLIO BENE MA LA MIA VITA NON È PIÙ LA STESSA  HO DECISO CHE VOGLIO  TOGLIERMI LA VITA NON SO  QUANDO LO FARÒ, MA LA  MIA VITA È INCOMPLETA  SAPPIATE CHE VI VOGLIO  BENE E SEMPRE VE LO VORRÒ.

Riconoscere la malattia, e accettarla 

Ma il rischio suicidario non è un destino ineluttabile e può scomparire se l’intervento terapeutico è efficace e ben ritagliato, con arte sartoriale, sulla persona. Per riscattare i pazienti da questo inferno e riportarli indietro, nel mondo del tempo vivente, che è il nostro, fino a che siamo (più o meno) sani, dove all’orizzonte risplende la speranza, sono necessari due passi: il primo è, ovviamente, riconoscere la malattia, da soli o con l’aiuto della famiglia, degli amici, dei colleghi di lavoro, dei vicini, dei medici... Se vogliamo aiutare le persone, occorre ricordare quella parola: “niente”. Perché quando i familiari notano: «Ehi, è da tanto tempo che ogni giorno dice che non ha voglia di fare niente!», si accende una spia di allarme, come l’indicatore dell’olio che lampeggia nella mia automobile. Che cosa vuol dire quella spia? Forse devo controllare il livello dell’olio con l’asticella, rabboccarlo se necessario, forse è una spia difettosa, forse c’è un falso contatto, ma io so capirlo? Forse è meglio se vado dal meccanico per una diagnosi. Perché quando mi lampeggia la spia dell’olio la cosa più stupida da fare è pensare che non voglia dire nulla oppure che voglia dire che l’auto sia da buttare. Ma ci devo stare attento a queste spie, perché poi subentrano le complicanze, la cronicità, la mortalità. Quindi, il passo successivo, e più importante: accettare che è una malattia, non una debolezza caratteriale, un sovraccarico di stress o l’influenza avversa di un “Saturno contro”. Osa dire di sì, che «anche io posso essere depresso; e se fosse depressione? E se sono malato?». Allora, chiedi aiuto, al medico di famiglia e poi agli specialisti. Diffida dei maghi, dei counselors, dei coach, di chiunque pretenda di fare il nostro lavoro senza essere abilitato o dei parenti che dicono: «Perché vai da uno psicologo? Parla con un amico, è uguale»; o di quelli che pontificano: «Lo psichiatra ti rovina, ti intossichi con i farmaci, butta tutto, non hai niente». 

Il tabù della psichiatria 

La psichiatria, dal greco psychè, anima, e iatreia, cura medica, ha a che fare con la cura, ha la cura nel suo destino, ce l’ha saldata a sé. Psichiatria è la cura della mente, dell’anima. Per Aristotele l’anima era una capacità razionale dell’individuo, mentre Platone pensava alla psiche come di origine divina. Nel più importante affresco del mondo, La scuola di Atene di Raffaello, che è anche il logo della nostra Università – di cui racconta il Professor Ghilardi in quest’articolo sulla cura e le parole –, vediamo i fondatori del pensiero moderno, da cui deriva la grandezza della civiltà cristiana in continuità con la civiltà classica, quindi, da Platone a Cristo. Al centro c’è Aristotele che tiene la mano avanti, come dire: «Io parlo e scrivo di quello che vedo davanti a me, dell’esperienza che ho della realtà»; l’altro, che è Platone, rappresentato con il volto di Leonardo vecchio, con la barba, alza il dito al cielo: «Io vi parlo di quello che sta sopra di noi, del mondo delle idee, che sta oltre la realtà fisica». Dunque, dentro la psiche e dentro le turbe della psiche c’è una potente pulsione di trascendenza che, per migliaia di anni, ha fatto sì che ricevesse una codifica simbolica, mistica, metafisica, fino ad essere accostata agli dèi e al demonio. Oggi la psichiatria è una disciplina scientifica, normata, validata ed è la branca medica principalmente accreditata a trattare la depressione, attraverso tre interventi principali: modificazioni dello stile di vita (igiene del sonno, attività fisica, alimentazione sana, riduzione dello stress, sospensione di abitudini negative come il consumo di alcol, tabacco o sostanze stupefacenti); la psicoterapia; la farmacoterapia
I farmaci antidepressivi rappresentano la terapia di prima linea ma, nonostante il loro vasto impiego (il 4,2% della popolazione italiana assume antidepressivi, fino ad arrivare all’11% di quella statunitense), il trattamento farmacologico risulta essere particolarmente complesso a causa della gravità della malattia, delle patologie a essa concomitanti, della ridotta aderenza, tollerabilità, sicurezza e, soprattutto, efficacia dei farmaci. Il 70% dei pazienti con depressione non raggiunge la remissione sintomatologica dopo una prima linea di trattamento e circa un 30% dei pazienti risulta completamente non rispondente, refrattario, resistente alle terapie farmacologiche (parliamo di più di 2 milioni di persone solo in Italia).

Nuove frontiere per la cura della depressione 

La stimolazione magnetica transcranica (TMS) è una delle opzioni più recenti per il trattamento della depressione, specie farmaco-resistente, in cui si osservano risposte cliniche vicine al 70% dei casi trattati. È un metodo di stimolazione cerebrale non invasiva, sicura e ben tollerata in cui i campi magnetici creati da una bobina posizionata vicino al capo del paziente vengono utilizzati per “attivare” una porzione di corteccia cerebrale cruciale per la regolazione dell’umore. La TMS presenta, per specifiche condizioni cliniche, evidenze scientifiche di un significativo beneficio in termini di salute, individuale e collettiva, laddove altre forme di assistenza, volte a soddisfare le medesime esigenze cliniche, non sono utilmente applicabili. Al momento, nel nostro Paese esistono diversi centri dove la TMS viene fornita come trattamento della depressione in regime privato, con costi che, stando a informazioni reperite dal web, si aggirano intorno ai 150 euro a seduta. Inoltre, la TMS viene estensivamente utilizzata a scopo di ricerca con buoni risultati nei maggiori centri universitari, come all’Università Campus Bio-Medico di Roma, dove, grazie agli sforzi del Professor Vincenzo Di Lazzaro, dell’Ateneo e dei nostri benefattori, essa può essere offerta gratuitamente a chiunque ne faccia richiesta e sia considerato idoneo dal punto di vista clinico. Le nuove acquisizioni fanno avanzare la conoscenza e la tecnologia, rappresentando una grande sfida per la sanità pubblica, chiamata a un costante aggiornamento e adeguamento della proposta di assistenza, servizi e prestazioni sanitarie. Auspichiamo che l’Italia, il cui Sistema Sanitario Nazionale, secondo la classifica Bloomberg Health Care Efficiency del 2018, si conferma tra i primi al mondo per efficienza, si possa allineare al più presto ad altri Paesi industrializzati dell’Occidente nell’offerta di cure efficaci e innovative. Ci auguriamo soprattutto che tutti i pazienti affetti da depressione e da altre patologie neuropsichiatriche abbiano a esse pari accesso, chiunque essi siano e ovunque vivano.  

Di Giuliano Albergo 

Il Dottor Giuliano Albergo

Giuliano Albergo è un biologo molecolare, medico, psichiatra e psicoterapeuta con un percorso di formazione e ricerca sviluppato tra Italia, Spagna e Stati Uniti. Ha un dottorato di ricerca in Neuroscienze e un master in criminologia clinica. Da sette anni collabora con la fondazione Policlinico Universitario Campus Biomedico Roma, dove da due anni dirige il Servizio di Psichiatria all'interno della UOC di Neurologia, guidato dal professor Vincenzo Di Lazzaro. 

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