01 Giugno 2025
Sono una ragazza italiana. Al momento dovrei trovarmi a Roma, eppure, come una marea di altri italiani, mi ritrovo raggomitolata nell’angolo di un freddissimo pavimento dell’aeroporto di Atlanta, da 24 ore, senza cibo, senza acqua, senza un letto e senza un volo.
Stavo tornando dall’Argentina con mio padre e mio cugino. Atlanta doveva essere un semplice scalo di 3 ore per arrivare a Roma. Poi però è diventato un incubo.
Viaggiavamo da Buenos Aires a Roma, con entrambe le tratte operate da Delta Airlines, compagnia americana che si autodefinisce eccellenza del settore. Ci siamo imbarcati sul primo volo con destinazione Atlanta, accolti da un portellone tappezzato di premi come “migliore compagnia d’America”. Forse i giudici di questi fantomatici premi si sono fatti abbindolare dalla sequela di merendine scadenti che ti offrono? Perché forse la priorità di un volo dovrebbe essere l’organizzazione nel trasporto dei passeggeri da meta a meta, e il nostro aereo dalla pluripremiata compagnia, una volta arrivato ad Atlanta, non disponeva neanche di un gate per farci scendere: era occupato da altri aerei. Abbiamo aspettato ben due ore, senza che venisse previsto l’utilizzo di un bus.
Peraltro le condizioni meteo erano buone. Nessuna nevicata o pioggia in corso, zero vento, piste pulite, con un po’ di neve ai bordi.
Ma si sa, un problema logistico può capitare a tutti. Il bello doveva ancora arrivare. Appena scesi abbiamo corso come pazzi fino al volo per Roma, e siamo anche stati fortunati: la fila per transitare ai “connecting flights” era lunghissima a causa di un inutile doppio controllo.
Siamo comunque arrivati all’imbarco per Roma con un’ora di anticipo sull’orario di partenza. Sospiro di sollievo. Aereo quasi completamente vuoto: occupazione circa al 10%. Che fortuna! Possiamo distenderci, dormire… è quasi l’una di notte.
Dopo una mezz’ora, l’aereo accende i motori, si stacca dal finger, si dirige verso la pista. Ma lì si ferma. Passano minuti su minuti, l’aereo non decolla.
Poi l’annuncio via autoparlante: secondo una legge federale americana, il pilota non poteva restare in cabina per più di 15 ore. Una norma che avrebbe senso se il pilota avesse davvero volato per 15 ore — cosa che non era avvenuta. Il volo Atlanta-Roma era diretto, e il piccolo ritardo in arrivo da Buenos Aires non poteva giustificare il superamento del limite.
Il vero motivo? Magicamente, poco prima dell’annuncio, erano stati contati i posti liberi sull’aereo: circa il 90%. Una percentuale troppo bassa per rientrare delle spese. Così, con la scusa della norma, ci hanno fatto scendere tutti, senza nessuna alternativa immediata.
Da notare che ci trovavamo ad Atlanta, hub principale di Delta Airlines, il cuore della compagnia, dove ci si aspetterebbe un’organizzazione impeccabile. Eppure, da ogni finestrino si vedevano solo aerei Delta parcheggiati a perdita d’occhio, eppure nessuno in grado di aiutarci.
Ci hanno detto che ci avrebbero riprotetto sul volo successivo. Ma è iniziata un’odissea. Ci hanno messi in fila con un numerino. Il nostro? 257. Duecentocinquantasette famiglie prima di noi. Era notte fonda, il desk chiudeva alle quattro. Era evidente che non saremmo mai arrivati al nostro turno.
Per la stanchezza, la fame, la preoccupazione, la rabbia — aggravate da un mio problema di salute — ho iniziato a sentirmi male. Mi sono avvicinata a un operatore spiegando la mia situazione. La sua risposta? “Vuoi che chiami un’ambulanza?”
No, non mi serviva un’ambulanza. Mi serviva non essere trattata come un animale. Ho risposto, sì, visibilmente provata, ma senza essere maleducata. Poco dopo, un suo collega è arrivato urlando: “Bene, se non ti serve un’ambulanza il discorso è chiuso. Se insisti, chiamiamo la polizia e ti facciamo rimuovere”.
Scioccata, mi sono arresa. Mi sono seduta per terra. Lo stesso addetto, con un’onestà brutale, ci ha detto che non ci sarebbero stati rimborsi, né camere d’hotel, né pasti, né acqua. E che alla prima protesta avrebbero chiamato la polizia.
E così è stato: la polizia è stata chiamata più volte. Finché anche i più determinati hanno ceduto, sfiniti, al pavimento.
Ci hanno poi distribuito delle copertine ridicole, spessore un millimetro, grandezza un metro per un metro. Solo a quelli che avevano già abbassato la testa. Noi le abbiamo dovute prendere di nascosto, perché ci venivano negate “per punizione”.
Abbiamo passato la notte tremando, stringendoci gli uni agli altri per non congelare. A completare il quadro, un allarme assordante che è rimasto acceso per ore. Nessuno lo ha spento. Nessuno si è curato di noi.
Questa mattina, dopo tutto questo, ci hanno “gentilmente” concesso un nuovo volo, con partenza 24 ore dopo l’originale, sempre se parte.
E la giustizia? Non si fa. Se la si chiede, è una questua. Se la si pretende, si è criminali.
Sono passati quattro mesi da quella notte. E nessuno si è fatto sentire.
Non una mail, non una spiegazione, non un rimborso. Nulla. E a questo punto non è solo una questione di rispetto: Delta Airlines ha violato apertamente tutte le normative europee e statunitensi in materia di tutela dei passeggeri.
Il Regolamento europeo 261/2004 stabilisce che in caso di cancellazione o ritardo superiore a tre ore, si ha diritto all’assistenza (cibo, bevande, alloggio se serve), al rimborso o a un volo alternativo, e in molti casi a un indennizzo tra 300 e 600 euro. Il tutto salvo “circostanze eccezionali”, che in questo caso non esistevano.
Anche secondo la normativa americana, le compagnie sono tenute a fornire supporto immediato, comunicazioni chiare e soluzioni concrete per i passeggeri bloccati.
Delta non ha rispettato niente. Nessun pasto, nessun alloggio, nessuna alternativa reale, nessuna compensazione. Solo silenzio.
Il loro slogan è “The Delta difference”. La D sta forse per dignità, quella che ci hanno tolto?
Di A.G.
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