27 Settembre 2025
Balcani Occidentali, fonte: X, @euractivitalia
Mentre l’attenzione globale è catalizzata dalle crisi in Medio Oriente e nell’Est europeo, nei Balcani occidentali si va delineando un nuovo scenario geopolitico tutt’altro che rassicurante. Una miscela instabile di crisi politiche interne, rivalità etniche, pressioni internazionali e accordi strategici sta rimodellando l’equilibrio regionale. E lo fa nel silenzio preoccupante delle grandi capitali europee, che ancora oggi sottovalutano l’importanza strategica di un’area che ha già dimostrato, nella storia recente, quanto possa essere deflagrante.
A quasi un anno dalla strage di Novi Sad, che aveva scosso la società serba, il clima nel Paese resta teso. Le proteste guidate dagli studenti non si sono mai realmente spente, e negli ultimi mesi si sono trasformate in una disobbedienza civile diffusa, repressa con metodi sempre più brutali. Il presidente Aleksandar Vučić, che governa la Serbia con un misto di nazionalismo e autoritarismo, continua a ignorare le richieste di elezioni anticipate, mentre i suoi sostenitori si rafforzano con l’appoggio di gruppi ultranazionalisti e frange criminali.
Bruxelles, solitamente prudente, ha fatto trapelare il proprio disappunto tramite la Commissaria all’Allargamento Marta Kos, condannando le violenze con un linguaggio più deciso del solito. Non si è fatta attendere la replica di Mosca, che ha bollato le manifestazioni come l’ennesima “rivoluzione colorata” ispirata dall’Occidente. È evidente come la Serbia sia diventata terreno di scontro tra influenze contrapposte, tra chi guarda a Bruxelles e chi continua a flirtare con Mosca.
La situazione nella Bosnia ed Erzegovina è ancora più precaria. Milorad Dodik, leader della Republika Srpska, nonostante la condanna penale e l’interdizione dai pubblici uffici, continua a comportarsi da presidente in carica. Il suo recente viaggio a Mosca per incontrare Sergej Lavrov non è solo una provocazione, ma un chiaro segnale: la leadership serbo-bosniaca intende giocare la carta russa per forzare lo status quo e preparare una possibile secessione.
L’annuncio di elezioni anticipate nella RS per il 23 novembre non sembra sufficiente a disinnescare la mina bosniaca. La presenza di un Alto Rappresentante internazionale è sempre più contestata, e cresce il rischio che la Bosnia diventi il prossimo campo di battaglia istituzionale tra Est e Ovest.
Nel Kosovo, la crisi è di altro genere, ma non meno grave. Dopo la vittoria del partito Vetevendosje alle elezioni di febbraio, il Paese è ancora senza governo, impantanato in uno stallo parlamentare dovuto al rifiuto di nominare un vicepresidente della Camera appartenente alla Lista Serba, fedele a Belgrado.
Le tensioni istituzionali si sono aggravate con la recente sospensione del dialogo strategico da parte degli Stati Uniti, da sempre principali sostenitori dell’indipendenza kosovara. Washington ha accusato il premier Albin Kurti di posizioni e dichiarazioni incompatibili con il processo di normalizzazione con la Serbia. È un colpo durissimo per Pristina, che rischia di perdere il suo alleato più potente in un momento di isolamento crescente.
Nel mezzo di queste tensioni, il 18 marzo 2025, i ministri della Difesa di Croazia, Albania e Kosovo hanno firmato a Tirana un accordo trilaterale di cooperazione militare, che va ben oltre la difesa. Si tratta di una dichiarazione geopolitica esplicita, destinata a ridisegnare l’intero equilibrio regionale.
L’intesa prevede:
Belgrado ha reagito con veemenza, definendo l’intesa una provocazione. La risposta non si è fatta attendere: ad aprile, la Serbia ha firmato un’intesa di cooperazione militare con l’Ungheria, e la Republika Srpska ha annunciato la volontà di aderirvi. Sebbene si tratti di un accordo tecnico e non di una vera alleanza, il messaggio politico è evidente.
L’esclusione del Montenegro dall’accordo trilaterale è un ulteriore elemento di frizione. I rapporti tra Podgorica e Zagabria si sono deteriorati dopo che il Montenegro ha appoggiato una risoluzione sul campo di Jasenovac, dove durante la Seconda Guerra Mondiale furono sterminati migliaia di serbi. Una ferita storica che continua a dividere i Balcani, rendendo ancora più difficile ogni tentativo di coesione regionale.
Per ora, un conflitto armato appare improbabile. Come ha sottolineato il think tank Belgrade Center for Security Policy, nessuno degli attori ha risorse o interesse reale a un’escalation militare. Tuttavia, il rischio maggiore è la cristallizzazione della polarizzazione: da un lato i Paesi che avanzano verso l’UE e la NATO, dall’altro quelli che si aggrappano a Mosca (e in parte a Pechino) come strumento di pressione.
La NATO mantiene una presenza dominante nella regione, con Camp Bondsteel in Kosovo come perno strategico. La Croazia si sta riarmando con caccia Rafale e carri Leopard, la Serbia risponde con acquisti dalla Russia e dalla Cina. Un riarmo che, seppur sotto traccia, contribuisce a inquietare gli equilibri.
L’intesa trilaterale potrebbe allargarsi a Bulgaria, Macedonia del Nord e persino Turchia, rafforzando un asse sud-orientale filo-occidentale. In questo scenario, la Serbia si sente accerchiata, e la tentazione di forzare la mano, magari riattivando la questione kosovara o alimentando il secessionismo bosniaco, resta concreta.
L’Unione Europea deve smettere di trattare i Balcani come un cortile di casa da gestire con stanche promesse di adesione. Serve una strategia coerente e assertiva, capace di sostenere le riforme democratiche e di contenere le derive autoritarie. I Balcani occidentali non sono una periferia dell’Europa. Sono il suo baricentro geopolitico più fragile. Ignorarlo ora sarebbe un errore strategico che l’Occidente potrebbe pagare a caro prezzo.
Di Riccardo Renzi
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