09 Settembre 2025
Erdogan, fonte: suo profilo Facebook
Nel cielo incandescente del Medio Oriente, tra le rovine di Damasco e le macerie di Gaza, si staglia la figura di Recep Tayyip Erdogan. Il presidente turco, tornato da poco dalla Cina dopo aver partecipato al vertice dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), ha rilasciato dichiarazioni che, sotto la scorza diplomatica, svelano una strategia lucida: Gaza come teatro, la Siria come progetto. Parole forti, quelle del leader di Ankara, pronunciate nel volo di ritorno da Tianjin: “I signori della guerra che investono nel caos perderanno questa volta”. Un avvertimento. Un segnale. Ma, soprattutto, una rivelazione.
La Siria non è più solo il vicino instabile: è la piattaforma su cui Erdogan intende ridefinire gli equilibri regionali. La promessa di “non abbandonare mai la Siria” è più di una dichiarazione d’intenti: è il tassello di una visione geopolitica che va oltre la retorica di solidarietà. Dopo la caduta del regime di Bashar al-Assad e l’ascesa di Ahmad al-Sharaa, Ankara vede la possibilità concreta di creare uno “stato cuscinetto”, un’area sotto influenza turca che garantisca profondità strategica a sud, contenga le aspirazioni curde e argini la penetrazione iraniana. La retorica inclusiva — arabi, curdi, turkmeni, alawiti, sunniti e cristiani “prevarranno contro chi vuole dividerli” — cela una precisa intenzione politica: legittimare il ruolo della Türkiye come potenza garante e, di fatto, autorità di riferimento nella ricostruzione siriana. Damasco è la vera posta in gioco. Gaza è lo specchietto per le allodole.
La politica estera di Erdogan è una miscela di simbolismo, pragmatismo e opportunismo. La sua forza risiede nella capacità di parlare a pubblici diversi con registri diversi, senza mai cadere in contraddizione apparente. Ai turchi, offre l’immagine del “padre della patria” che difende l’Islam e l’orgoglio nazionale. Al mondo islamico, si presenta come il campione dei popoli oppressi. All’Occidente, come attore imprescindibile, capace di parlare con Mosca e Pechino, ma ancora saldamente dentro la NATO.
L’esempio più eloquente? Le invettive contro Israele. Le accuse di “genocidio”, le immagini forti, le richieste all’ONU di fermare Tel Aviv. Ma mentre la narrazione infiamma le piazze, l’hub energetico turco di Ceyhan continua a far transitare il petrolio azero, destinato anche a Israele. Un doppiogiochismo che non è incoerenza, ma metodo.
Dietro la strategia siriana e la retorica su Gaza si cela un principio ben più profondo: la centralità della geografia nella coscienza strategica turca. Il concetto di Mavi Vatan, la “Patria Blu”, elaborato dagli ambienti militari e fatto proprio da Erdogan, definisce i mari che circondano la Turchia come parte integrante del territorio nazionale. Mar Nero, Egeo, Mediterraneo orientale: Ankara si percepisce come potenza marittima e ponte fra mondi. Una visione che Roma dovrebbe comprendere bene, ma che troppo spesso dimentica. L’Italia, affacciata sul cuore del Mediterraneo, sembra aver smarrito la propria vocazione marittima, accettando per decenni un ruolo subalterno ai giochi delle grandi potenze. La Turchia no. Costruisce basi, firma accordi energetici, investe nella cantieristica navale e si dota di portaerei. E lo fa parlando una lingua identitaria che l’Italia ha dimenticato: quella della geopolitica.
Le incursioni israeliane in Siria, intensificatesi dopo la fine del regime di Assad, sono lette da Ankara come un affronto diretto. Per Erdogan, la presenza israeliana a ridosso del Golan non è solo una questione di sicurezza regionale, ma una minaccia al progetto di egemonia turca sulla nuova Siria. Ecco il senso delle dichiarazioni incendiarie su Gaza: servono a distogliere l’attenzione, a mobilitare consensi, ma anche a mascherare una battaglia ben più seria. Israele vuole una Siria debole e frammentata. Erdogan, al contrario, la vuole funzionale al suo disegno neo-ottomano. È una guerra silenziosa, giocata tra bombardamenti chirurgici e dichiarazioni teatrali. Mentre i riflettori globali sono puntati su Gaza, la posta in gioco si sposta più a nord. Chi capisce di strategia, lo sa: non è la Striscia l’epicentro della nuova geopolitica, ma il Levante siriano. Gaza è il dito, la Siria è la luna.
Nel caos dell’ordine multipolare, Erdogan non è spettatore: è regista e attore. Partecipa ai BRICS e alla SCO, ma resta nel cuore della NATO. Dialoga con Mosca su Siria e gas, ma mantiene la porta aperta con Washington. A Pechino offre collaborazione strategica, ma senza rompere con Bruxelles. Il suo metodo? Moltiplicare i tavoli, creare ambiguità, essere sempre necessario. Così facendo, trasforma la fragilità in centralità. Anche la recente apertura sul Corridoio di Zangezur, che collegherà l’Azerbaigian alla Turchia attraverso l’Armenia, non è solo un’infrastruttura logistica. È un messaggio: Ankara vuole essere il nodo di tutti i flussi — energetici, commerciali, diplomatici — tra Asia e Mediterraneo. Chi ostacola questo processo, avverte Erdogan, “ne pagherà il prezzo”.
L’Europa, e l’Italia in particolare, rischiano di restare intrappolate nella narrazione emotiva imposta da Ankara. Ogni volta che Erdogan alza i toni su Gaza, il dibattito si polarizza, e si perde di vista il contesto. Ma la vera sfida si gioca a Damasco, a Idlib, nei corridoi energetici e nei mari contesi. L’Italia, con interessi cruciali nel Mediterraneo orientale (dai giacimenti ENI al ruolo strategico di Suez), non può permettersi di ignorare il protagonismo turco. Erdogan è un rivale, ma anche uno specchio: mostra ciò che potremmo essere, se riscoprissimo la nostra vocazione geopolitica.
di Riccardo Renzi
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