17 Luglio 2025
Israele ha bombardato la Siria. Il palazzo presidenziale e il ministero della Difesa di Damasco sono stati colpiti. Il presidente ad interim Aḥmad Ḥusayn al-Shara, noto come Abu Muhammad al-Jolani, non è stato coinvolto nell'attacco e ha prontamente accusato Tel Aviv di "voler seminare caos e divisione" in Siria. Lo Stato ebraico dal canto suo dichiara di aver agito "in difesa della comunità drusa", protagonista nei giorni scorsi di violenti scontri con i beduini e le forze militari di Damasco, nella città di Sweida.
In realtà Israele avrebbe bombardato Damasco per scopi che vanno ben al di là del solo supporto ai drusi. Gli attacchi delle Idf sarebbero volti sostanzialmente al conseguimento di due obbiettivi: destabilizzare il governo Siriano, che non controlla ancora pienamente il paese, e far rimanere Benjamin Netanyahu al potere.
La motivazione ufficiale degli attacchi è la difesa della comunità drusa, minoranza etnico-religiosa molto vicina al governo di Tel Aviv. Nonostante non siano di fede ebraica, i drusi sono ben integrati nello Stato di Israele, essendo tenuti anche a servire nelle Idf (cosa che invece non fanno gli altri arabi israeliani). I drusi sono presenti anche nel resto del Medio Oriente, in particolar modo in Siria, dove costituiscono il 3% della popolazione. Di recente, questo gruppo etnico è stato protagonista di scontri con i beduini e l'esercito siriano, che hanno lasciato sul terreno oltre 300 morti.
La comunità drusa in Israele – attraverso il suo leader spirituale, lo sceicco Mowafaq Tarif – aveva lanciato un appello a Tel Aviv per fornire soccorso ai “fratelli massacrati” in Siria. Ecco che lo Stato ebraico non ha perso l'occasione e ha provveduto ad intervenire.
Dietro i bombardamenti al palazzo presidenziale e al ministero della Difesa di Damasco (quest'ultimo distrutto), non vi è certo solamente il pretesto della difesa dei drusi, ma ve ne sono almeno due molto più geopoliticamente significativi.
Il governo Netanyahu vorrebbe in primis indebolire il regime di Damasco. Con la rivoluzione di al-Jolani, in Siria è caduto il governo del presidente Bashar al-Assad e si è instaurato un regime provvisorio, che ha come presidente lo stesso capo dei ribelli ed ex membro di Al-Qaeda. Un governo che non è più appartenente alla minoranza religiosa degli alawiti, ma dei musulmani sunniti, corrente che ha storicamente rapporti conflittuali con Israele. Basti pensare alla Lega Araba: la maggior parte degli stati della coalizione è di maggioranza sunnita e non riconosce Israele. Nemmeno la Siria riconosce lo Stato ebraico. Di conseguenza, il regime siriano potrebbe essere un vicino scomodo per Tel Aviv.
Da qui la necessità israeliana di arginare la "minaccia siriana". Attaccando Damasco e supportando i drusi, Tel Aviv può contribuire a far rimanere la Siria nel caos, non dando il tempo al governo di al-Jolani di organizzarsi e di pacificare il territorio. Con un paese in preda a lotte intestine e che si deve continuamente curare degli attacchi esterni, mentre cerca nel contempo di farsi legittimare dalla comunità internazionale, al-Jolani non avrebbe il tempo e le risorse per diventare una minaccia consistente per il vicino Israele.
Nella regione medio orientale lo Stato ebraico ha diversi fronti aperti, Libano, Iran, Gaza, Cisgiordania, quindi il "disinnescare", o rendere "più gestibile" quello siriano sarebbe un vantaggio strategico importante.
Altro scopo dell'attacco a Damasco, forse quello più importante, è quello di preservare il potere di Benjamin Netanyahu. Il primo Ministro israeliano è da tempo sotto processo e a rischio sfiducia da parte della Knesset: in queste ore la sua coalizione si sta sfaldando e non ha più la maggioranza in parlamento. Di conseguenza, la possibilità che il governo cada e che Netanyahu venga processato sono in aumento.
Da qui l'esigenza di avere uno stato di guerra perenne. Come nel caso della guerra a Gaza, condotta ufficialmente contro Hamas (organizzazione finanziata dal Qatar grazie allo stesso Netanyahu), il conflitto siriano servirebbe solo a distrarre l'opinione pubblica e a racimolare consensi, nel tentativo di rimanere al potere. I partiti ultraortodossi usciti dalla coalizione di governo sono contrari a qualsiasi tregua a Gaza e, in generale, a qualsiasi "dimostrazione di debolezza" nei confronti di potenziali minacce esterne. Ecco dunque perché il fronte siriano potrebbe dare ossigeno all'esecutivo di Netanyahu.
Secondo alcune fonti del deep state israeliano raccolte da Il Giornale d'Italia, dietro all'intensificarsi del conflitto siriano potrebbe esserci l'ipotesi di un cambio di regime. Al-Jolani non è gradito a Vladimir Putin (che ospita a Mosca Assad) e la comunità internazionale lo guarda con sospetto dopo gli ultimi attacchi alle minoranze etniche e religiose in Siria. Tel Aviv dunque potrebbe provare a dare il via a un colpo di Stato, col beneplacito di Russia e Stati Uniti, per instaurare un governo provvisorio meno ostile allo Stato Ebraico (improbabile l'ipotesi di un ritorno di Assad).
Altra ipotesi caldeggiata potrebbe essere quella di un'attuazione del piano "Greater Israel", piano del 1982 che prevede l'occupazione della "terra promessa, dal Nilo all'Eufrate", inglobando nello Stato ebraico Palestina, Libano e Siria. Lo stesso ministro delle finanze Bezael Smotrich, in passato pronunciò affermazioni quali: "È scritto che il futuro di Gerusalemme sia di espandersi fino a Damasco".
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