15 Gennaio 2025
"No, non posso assicurarvi su nessuno di questi due punti. Ma posso dire questo: ne abbiamo bisogno per la sicurezza economica." Questa è stata la risposta di Donald Trump, che tra pochi giorni entrerà alla Casa Bianca, a una domanda sull'utilizzo della "coercizione economica o militare" per ottenere il controllo della Groenlandia o del Canale di Panama.
Come era facile aspettarsi, queste dichiarazioni hanno mandato in subbuglio la stampa, ma hanno dato inizio anche a una serie di riunioni d'urgenza dei Paesi alleati e non, che si chiedono se il nuovo presidente ricorrerebbe veramente alla forza in questi casi. È esattamente quello che piace al tycoon e ai suoi consiglieri più stretti: lanciare provocazioni per poi osservare le reazioni degli altri, valutando gli spazi che si possono aprire per promuovere gli interessi strategici degli Stati Uniti.
Questo non significa che tutto sia calcolato. Trump segue i propri istinti e non ha problemi a lanciare sorprese in qualsiasi momento. Tuttavia, il metodo generale è consolidato: gettare un sasso nello stagno e osservare le onde che crea, per poi approfittare del cambiamento dei parametri della discussione.
Con la Groenlandia succede già: il primo ministro Múte Egede del territorio danese – che comunque aspira a diventare pienamente indipendente – si è dichiarato "sconvolto" dalle parole di Trump, aggiungendo: "Noi non vogliamo essere americani." Tuttavia, Egede ha precisato che intende approfondire la collaborazione con gli USA nel settore della difesa e ha accolto positivamente un potenziamento degli investimenti americani nel settore minerario groenlandese. Anche il governo danese ha richiesto incontri riservati su entrambe le questioni. Questo è esattamente il tipo di risposta che giova a Washington: reagire in modo netto alle affermazioni provocatorie, ma poi mostrare disponibilità ad aprirsi sempre di più alle richieste più sostanziali della politica americana.
In questo caso, si tratta di riconoscere la posizione strategica della Groenlandia sia per quanto riguarda l'Oceano Atlantico, sia per la sua posizione sull'Artico. Non è una novità. Gli Stati Uniti avevano sollevato la possibilità di acquisire l'isola già nella seconda metà del 1800, per poi occuparla durante la Seconda Guerra Mondiale, con l'obiettivo di impedire che i tedeschi si avvicinassero al territorio americano.
Inoltre, c'è la questione delle materie prime: gli USA sono già al primo posto mondiale per quanto riguarda gas e petrolio, ma Trump insiste sulla necessità di trivellare sempre di più. Ancora più rilevanti potrebbero essere le grandi riserve di terre rare, elementi minerali cruciali per l'economia elettronica e digitale. Non è un caso che il primo ministro groenlandese abbia citato specificamente questo tipo di attività.
Gli Stati Uniti sono nati come una nazione anti-imperiale: un gruppo di colonie che non solo si sono liberate dall'impero dominante del tempo, ma che sono riuscite a creare l'economia più forte del mondo in poco più di un secolo. Ci sono stati periodi nella storia americana in cui questa caratteristica fondamentale è stata messa da parte, adottando un approccio fin troppo simile a quello dei vecchi oligarchi. Tuttavia, l'imperialismo esplicito è stato un fenomeno limitato a pochi decenni, per poi essere abbandonato anche a causa delle polemiche interne.
Negli anni successivi, ci sono stati numerosi interventi militari e operazioni clandestine mirati a estendere l'influenza americana, soprattutto durante la Guerra Fredda, quando gli Stati Uniti si vedevano come l'alternativa liberale ai regimi comunisti. Oggi si sta ricreando una dinamica simile nei confronti della Cina. Tuttavia, sarebbe un netto tradimento dei principi storici americani lanciarsi in avventure imperiali del tipo ventilato da Trump. È più probabile, invece, che si assista a una serie di polemiche e provocazioni mirate a raggiungere obiettivi strategici all'interno dell'attuale quadro di competizione globale.
di Andrew Spannaus
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