15 Dicembre 2025
Londra, ore centrali della giornata, venerdì 12 novembre. Davanti all’Ambasciata italiana si raduna un gruppo di manifestanti curdi e islamisti. La richiesta è chiara: migliorare le condizioni carcerarie – o arrivare alla liberazione – di Najmaddin Faraj Ahmad, conosciuto come Mullah Krekar, detenuto in Italia e condannato nel 2020 a dodici anni di reclusione per reati di terrorismo.
La protesta viene presentata come pacifica, formalmente notificata alle autorità britanniche. Il lessico utilizzato è quello consueto: diritti violati, trattamento disumano, pressioni psicologiche. Una narrazione ormai standardizzata, che merita però di essere analizzata con attenzione, perché qui non si parla di un detenuto qualunque.

Mullah Krekar è un predicatore curdo sunnita, figura storica dell’islamismo radicale in Kurdistan, riconosciuto dalla magistratura italiana come leader spirituale della cellula jihadista Rawti Shax, smantellata nel 2015. Estradato dalla Norvegia, Paese in cui aveva vissuto per anni come rifugiato senza mai ottenere la cittadinanza, Krekar è oggi uno dei pochi casi in cui un tribunale europeo ha portato a sentenza un’imputazione per terrorismo di questo livello.
I manifestanti – e in particolare il fratello Walid Faraj Ahmed – denunciano condizioni carcerarie definite “inumane”: problemi di salute cronici, accesso limitato ai farmaci, riscaldamento insufficiente, assenza di un interprete in lingua italiana, restrizioni ai colloqui legali e la confisca di materiali scritti e libri in arabo, incluso il Corano. Elementi che, se confermati, devono essere verificati e affrontati secondo i principi dello Stato di diritto. Su questo non c’è ambiguità possibile.
Ma è proprio qui che si apre il nodo politico.
Perché la protesta non si limita a chiedere il rispetto di standard carcerari. Mette in discussione la legittimità stessa della detenzione, spingendo l’Italia sul banco degli imputati internazionali. E lo fa rimuovendo quasi completamente il profilo ideologico e operativo dell’uomo per cui si manifesta.
Krekar non è un dissidente perseguitato. È stato leader dell’Ansar al-Islam, gruppo che ha imposto una forma rigida di sharia nelle aree montane del nord Iraq, che ha combattuto militarmente e che è stato classificato come organizzazione terroristica. Le accuse di omicidi e violenze – da lui respinte – restano parte integrante del suo passato politico. Un passato che rende tutt’altro che casuale il fatto che, in caso di ritorno in Iraq, potrebbe affrontare procedimenti gravissimi, persino la pena capitale.
È significativo che la mobilitazione avvenga davanti a un’ambasciata europea. Non a Erbil, non a Baghdad. All’Italia, cioè a uno Stato che ha processato Krekar con strumenti giuridici ordinari, non militari, non extragiudiziali. È il paradosso ormai ricorrente: l’Europa viene chiamata a giustificarsi non per gli abusi, ma per l’applicazione delle proprie leggi.
Il Ministero della Giustizia italiano, interpellato, non ha rilasciato dichiarazioni. Un silenzio che, sul piano comunicativo, lascia spazio a una narrazione unidirezionale e politicamente orientata. Perché nel vuoto istituzionale, la versione più emotiva tende sempre a prevalere.
Il punto, però, resta uno solo: tutelare i diritti di un detenuto non equivale a riscriverne la storia. Lo Stato di diritto non si difende cedendo alla pressione simbolica, ma mantenendo una distinzione netta tra garanzie giuridiche e legittimazione politica.
Se oggi l’Italia è sotto accusa, non lo è per aver violato le regole.
Lo è per averle applicate fino in fondo.
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