14 Gennaio 2025
DOHA. Il telefono di Abdallah Al Haj è pieno di immagini e filmati di Gaza. Non solo le case in pezzi, le scuole e gli ospedali distrutti e le strade in rovina. I video di Abdallah sono pieni di vita, ci sono le spiagge di Al- Shati, i mercati, i pescatori, gli insegnanti e gli allievi sui banchi. Abdallah Al Haj è un giornalista e filmaker, ha lavorato prima per il giornale Al-Quds e poi, dal 2011, ha collaborato con Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso dei rifugiati palestinesi. Per 13 anni ha documentato le attività di Unrwa, come venivano gestiti i fondi, quali progetti erano sviluppati per sostenere i palestinesi. Il suo sguardo si è concentrato sempre più sulla bellezza di Gaza che sulle sue difficoltà, sempre più verso i colori del Mediterraneo che verso le rovine. Poi è arrivata la guerra. «La guerra a Gaza non comincia, la guerra torna» corregge gli interlocutori Abdallah, mentre mostra la sua città da esule.
È stato evacuato a Doha, Qatar, lo scorso aprile dopo aver perso entrambe le gambe in un attacco israeliano. Oggi vive nel complesso Thumama, inizialmente costruito per ospitare i team dei mondiali di calcio disputati in Qatar nel 2022, e oggi destinato ai palestinesi evacuati da Gaza, per lo più bambini con gli arti amputati.
Dopo l’inizio dell’offensiva militare israeliana, Abdallah non ha girato una sola immagine per tre mesi, dall’8 ottobre a gennaio. Era scioccato, spaventato per la sua famiglia. Poi ha deciso che avrebbe ripreso a lavorare, perché era un giornalista «e il mondo doveva vedere».
Ha preso la telecamera e i droni «perché vedono quello che gli occhi delle persone non possono vedere» e ha cominciato da Zeitoun, quartiere nella parte meridionale di Gaza City, dove è nato e vissuto e poi ha cominciato a muoversi in altre zone della Striscia.
Era l’inizio di febbraio e le truppe israeliane si erano ritirate verso il confine, oltre Bet Lahia. Quasi ogni giorno camminava tra le macerie quasi senza più punti di riferimento, le strade che conosceva non c’erano più, ridotte ad ammassi di detriti, documentava le scuole e gli ospedali distrutti, incontrava famiglie che avevano cominciato a mangiare concime per bestiame, e altre famiglie che ogni giorno decidevano quale dei figli potesse mangiare e quale no.
A metà febbraio del 2024 Unrwa ha diffuso uno dei suoi video, mostrava la distruzione del campo profughi di Al-Shati, il campo vicino al mare dove prima della guerra vivevano 90 mila persone e la didascalia iniziale recitava: «Non ci sono parole». Dopo la diffusione del video i suoi colleghi lo hanno subito messo in guardia: gli israeliani vogliono sapere il nome dell’autore, gli hanno detto.
Abdallah ha continuato a girare finché una mattina i carri armati israeliani sono arrivati nel suo quartiere, così lui e sua moglie hanno preso i bambini e sono andati nell’area di Al-Shifa a cercare riparo.
«Quando camminavo vedevo persone che cercavano un pezzo di vita tra le macerie, provavano a vivere negli edifici crollati per metà pur di non abbandonare tutto. Un giorno ho preso la telecamera e il drone e sono andato verso la spiaggia, volevo parlare con i pescatori, con gli anziani. E volevo vedere il mare di Gaza, che è sempre stato il mio unico modo di vedere il resto del mondo. Ho tirato fuori il drone, il Mediterraneo davanti e la distruzione alle spalle, mentre guardavo il mare pensavo: c’è ancora qualcosa in cui sperare. Ho abbassato il drone, ho camminato duecento metri e il viso del pescatore con cui volevo parlare è l’ultima cosa che ricordo». Un aereo da ricognizione israeliano li ha raggiunti. Il suo assistente è morto, così come i due pescatori e lui ha perso entrambe le gambe. Quando i soccorritori sono arrivati erano convinti che non avrebbe raggiunto vivo l’ospedale Al-Shifa, invece i dottori per tre giorni hanno fatto di tutto per tenerlo in vita e ci sono riusciti.
La nota dell’esercito israeliano sull’accaduto recitava che le forze armate avessero «eliminato con un aereo da caccia una cellula terroristica che utilizzava un drone, il che rappresentava una minaccia imminente nella regione di Al-Shati, perché Hamas utilizza i droni per vari scopi militari, tra cui localizzare le nostre forze».
Era la fine di febbraio, il 18 marzo sarebbe iniziato l’assedio dell’ospedale Al-Shifa, durato 15 giorni.
In quei giorni l’esercito israeliano disse che le truppe stavano operando nell’ospedale Al-Shifa, perché ritenevano che fossero presenti alti funzionari di Hamas che pianificavano attività terroristiche. Si legge nel comunicato di quei giorni: «Le truppe sono state informate in anticipo sull’importanza di prevenire danni ai civili, ai pazienti, ai team medici e alle attrezzature mediche, ai pazienti e al personale medico non è stato ordinato di evacuare l’ospedale, ma l’esercito ha creato dei percorsi per consentire ai civili di lasciare la zona».
E ancora: «Una volta terminata l’operazione in ospedale, le truppe continueranno lo sforzo umanitario e forniranno cibo, acqua e ulteriori rifornimenti ai pazienti e ai civili nel complesso».
Abdallah racconta che i pazienti, anche quelli gravi, sono stati spostati dal reparto di terapia a quello oncologico con la forza, ha visto pazienti e medici uccisi sul posto, «portavano via i pazienti e sentivamo i colpi di pistola poi portavano indietro i corpi».
Abdallah ricorda anche una visita di un gruppo di giornalisti embedded con le truppe israeliane. Davanti alle telecamere i soldati avevano allestito una ventina di letti negli uffici amministrativi dell’ospedale. «I soldati adagiarono sui letti ventiquattro dei feriti più gravi tra noi, per dimostrare che erano ben curati e curati. Dieci minuti dopo che le telecamere erano andate via hanno buttato tutti fuori dalla stanza».
Durante l’assedio dell’ospedale i pazienti sono rimasti una settimana senza cibo, e intanto, alcuni di loro morivano.
«I soldati ci prendevano in giro, entravano nella stanza e chiedevano: “Quanti morti oggi?”. Noi rispondevamo: due, tre o quattro. E loro dicevano che avrebbero aspettato che diventassero venti per seppellirli».
Gli infermieri avevano solo pochi minuti per gettare i corpi in una fossa scavata sul terreno intorno l’ospedale prima che i bulldozer ci passassero sopra.
Terminato l’assedio, all’inizio di aprile, le truppe israeliane hanno lasciato l’ospedale e sono arrivate le famiglie dei feriti.
Nel cortile dell’ospedale Al-Shifa sono state scoperte due fosse comuni, in tutto trenta cadaveri. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità ventuno pazienti sono deceduti a causa della mancanza di cure durante l’operazione militare.
La Civil Defense ha spostato Abdallah, prima ad Al-Madani poi a Khan Yunis, poi nell’ospedale da campo di Rafah, dove Unrwa ha mediato per la sua evacuazione in Qatar attraverso l’Egitto.
A oggi sono 203 i giornalisti palestinesi di Gaza uccisi in un anno e mezzo dalle forze armate israeliane. L’ultimo Saed Nabah, ucciso due giorni fa a Nuseirat da un cecchino.
Già a gennaio del 2024, il capo del Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj) ha dichiarato: «La guerra di Israele contro Gaza è più mortale per i giornalisti di qualsiasi guerra precedente».
Secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti, Israele ha una storia di diffamazione dei giornalisti palestinesi con affermazioni non provate. È successo anche a luglio, quando Israele ha ucciso il corrispondente di Al Jazeera Ismail al-Ghoul e in seguito ha rilasciato documenti che sostenevano di provare che al-Ghoul aveva ricevuto un grado militare di Hamas quando aveva solo 10 anni. «È un modello: Israele fa questo tipo di accuse, fornendo prove che, francamente, non sono credibili o, in alcuni casi, senza fornire alcuna prova – afferma Jodie Ginsberg, amministratore delegato del Cpj –. Abbiamo sempre meno giornalisti che ci raccontano... abbiamo sempre meno informazioni che provengono da Gaza. Ed è assolutamente essenziale che abbiamo queste informazioni, che abbiamo queste immagini, in modo che la comunità internazionale possa comprendere la portata di ciò che sta accadendo».
Oggi le giornate di Abdallah Al Haj trascorrono su una sedia a rotelle in una casa nel complesso Thumama di Doha. Non si lamenta mai delle sue condizioni, non vuole parlare di quanto sia difficile vivere senza gambe, vuole parlare del suo lavoro, di quello che ha visto. Dei crimini di cui è stato testimone.
Il suo più grande desiderio è tornare a raccontare Gaza, la sua Gaza.
E alla domanda: «Cosa significa oggi essere un giornalista palestinese a Gaza?» risponde solo: «Documentare la propria morte».
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